EMMAUS “IL DONO PASQUALE APRE LA MENTE ALLE SCRITTURE”

Lc. 24,13-35

L’episodio inaugura l’era della Chiesa; i due discepoli sono il simbolo della comunità che non ha più il privilegio della presenza fisica di Gesù come lo è stato per gli Undici.

Il brano occupa la posizione centrale nell’economia del cap. 24, che è così diviso

vv. 1-12:         le donne e Pietro al sepolcro.       

  vv. 13-35:      Emmaus (in viaggio nella storia)       

  vv. 36-53:      Il Risorto e gli Undici (le ultime consegne e l’apertura della mente per capire le Scritture).

Oggi gli studiosi riconoscono che ci troviamo di fronte ad un’elaborazione lucana delle fonti e non a un semplice diario o resoconto di fatti di cronaca. Il materiale è stato ripensato completamente in funzione della istruzione catechetica che Luca fa alla sua chiesa e a noi lettori, parallela all’episodio narrato in Atti 8, che ha per protagonisti Filippo e l’etiope.

L’evangelista ci pensa anzitutto in viaggio nella storia, viene data molta importanza alla dimensione del cammino. La prima affermazione sottolinea che il discepolo, in questo cammino non è solo, Gesù facendosi compagno lungo “la via”, lo incontra e si fa riconoscere nella Scrittura e nell’Eucarestia partecipandogli tutte le potenzialità della sua condizione di Risorto.Così fortificato, il discepolo potrà proseguire il suo viaggio che diviene un esodo (cf. 9,31) verso la meta definitiva: ascendere al cielo.

L’episodio narra dunque la chiesa viandante che rimedita i fatti accaduti a Gesù per capire il senso del proprio cammino e per invocare la presenza del Risorto, in modo da goderlo nel proprio cuore come forza e presenza interiore che la fa ardere nel suo compito di vita testimoniale. Tutto si svolge nel giorno “Uno” dopo i Sabati (Lc. 24,1) verso sera, che può significare sia la pienezza dell’esperienza nuova partecipata dal Risorto, che  il tramonto e la frustrazione di una vita senza senso qualora ci si allontani da Lui.

Sguardo letterario

Abbiamo due movimenti:

vv. 13 – 24 :  Movimento di separazione
il punto di vista dei due discepoli

Un cammino verso la dispersione e la divisione fatto di uno sfogo amaro; i due si partecipano sentimenti frustrati a guisa di un cieco che guida un altro cieco. Essi si allontanano da Gerusalemme, ossia dall’evento pasquale dalla propria comunità; si tratta del movimento del tramonto e della fine delle speranze.Al v. 17 si dice che i due viandanti si buttano addosso le parole l’uno all’altro, come fossero dardi: “che parole state buttandovi addosso” dirà loro il pellegrino sconosciuto che li accosta. La loro distanza dal mistero di Gesù è sancita dal modo con cui essi reagiscono:

v. 18 – “Tu solo sei straniero a Gerusalemme e non sai le cose accadute in questi giorni”, che significa: tu solo sei estraneo a tutti i fatti e alla vicenda che riguarda anche la nostra vita.

Frustrazione e tristezza ricapitolano bene la loro situazione di delusi, demotivati e cupi. Il loro movimento, di conseguenza, non può essere altro che allontanarsi verso non si sa dove… Ora essi si trovano di fronte al nulla, perché con la morte di Gesù si è chiusa per loro ogni prospettiva di liberazione politico-nazionale (avevano capito poco della missione di Gesù). Un secondo elemento di allontanamento sono gli occhi impediti e la parola chiusa.

Ai vv. 15-16 Luca fa presagire qualcosa di importante e introduce così la conversazione dei due discepoli : (“kai egheneto en to omilein autous kai zuzetein”) = “e avvenne che mentre essi conversavano familiarmente e cercavano insieme, i loro occhi erano immobilizzati, trattenuti (dal verbo krateo)”. Infine ricordiamo che la morte di Gesù aveva chiuso le loro speranze (v. 21). Seguendo più da vicino lo sviluppo della sezione, notiamo che il filo conduttore è rappresentato dalla parola  – la via – il cammino (odos) v. 32.

Il tema del viaggio è caro a Luca e non a caso colloca l’episodio  sullo sfondo che ricorda il cammino di Gesù verso Gerusalemme (Lc. 9,51 fino a 19,17).

L’evangelista narra il viaggio come l’esodo che porta Gesù fino all’ascensione, attraverso i fatti della Pasqua che gli accadono a Gerusalemme. Questo movimento è sconosciuto ai due. Si tratta di un pellegrinaggio caratteristico anche per il tempo della chiesa. Con l’episodio di Emmaus si offre così una catechesi circa il cammino del discepolo che esce da questo mondo verso la patria definitiva. Che cosa succede lungo la “Via” nel tempo della chiesa? Può succedere, da parte di alcuni, un movimento di separazione dalla comunità e da quei fatti importantissimi e decisivi per il destino della vita.

Questo allontanamento porta a discutere (antibalein), a lanciarsi parole, quasi a dire che l’Evento pasquale non capito oppone gli uni agli altri, dividendoli. Separati dalla comunità, i due ora si trovano divisi tra di loro e disorientati, senza speranza.

Gesù si fa compagno di viaggio assumendo la loro situazione negativa. Egli si avvicina a coloro che si allontanano e va al cuore di ciò che li separa. Gesù li interroga con lo scopo di raggiungere la loro dispersione e divisione, le loro incapacità di vedere, di leggere gli avvenimenti e le delusioni che generano tristezza. Come non vedere un tema caro a tutto il Vangelo di Luca, che non manca di sottolineare l’attenzione particolare di Gesù verso i lontani e i perduti?La preoccupazione prima di Gesù non è di rimproverare, ma di farsi compagno di viaggio, e di porre domande in modo da riaprire gli interrogativi decisivi dell’esistenza.

Luca sottolinea che queste due iniziative – avvicinarli e interrogarli – restano di fatto senza effetto, ossia non bastano a ricucire la distanza dei due in rapporto a Gesù e alla comunità. I discepoli conoscono tutto di Gesù, sanno persino che degli angeli hanno detto che egli è vivo (v. 23); ma essi restano estranei dall’Evento: “noi speravamo, hanno gli occhi impediti e il cuore rigido”. Le situazioni della vita possono dunque irrigidire, rendere ciechi e delusi (v. 16), trascinando l’esperienza verso la notte e l’oscurità.

Gesù diventa allora un estraneo (paroikeis) al punto da essere l’unico che non sa quello che tutti sanno e cioè l’insignificanza della sua opera.

Dell’evento passato si conoscono tutti i particolari, ma non lo si comprende perché di esso non se ne ha “esperienza”: gli occhi sono impediti e la ragione è rigida.Gesù era per loro un profeta potente in azioni e parole davanti a Dio e al popolo (v. 18).

Per i capi di Gerusalemme e i gran sacerdoti, invece era un personaggio contraddittorio. Essi lo hanno smascherato e crocifisso. Si tratta di valutazioni complesse e molto attuali. Dio infatti sembrava compromesso nella vita di questo uomo – Gesù: era profeta davanti a Dio, ma la sua potenza non ha retto di fronte alla Croce: “scenda dalla croce e gli crederemo; ha salvato altri salvi se stesso”! (v. 23. 35.37). Anche i due hanno qualcosa da dire circa Gesù: v. 21 – noi stessi avevamo la speranza che liberasse Israele ma ormai, le cose hanno assunto un’altra direzione.

vv. 22-24 – Essi parlano perfino della tomba vuota, del messaggio delle donne che dicono di aver visto degli angeli, i quali affermano che egli vive. Ma quella testimonianza, anche se autorizzata da angeli per loro rimane fragile, perchè né esse e nemmeno i discepoli lo hanno visto, e la parola divina che esse ripetono è debole.

Luca porta così il lettore  a capire la complessità dell’evento pasquale e della possibilità di farne una lettura riduttiva ed ambigua. Rimane una distanza e uno scarto da recuperare anche per l’uomo moderno: la tomba vuota e nemmeno gli angeli convincono fino in fondo. Il racconto lucano non minimizza il problema della fede, anzi ne fa intravedere tutta la sua profondità.

vv. 25-32 – Movimento: La spiegazione della Parola  e la convivialità eucaristica
Per Luca e per il cristiano la spiegazione della Parola costituisce la prima parte della Cena, per rivivere il contatto con il Risorto.Questa parte è assolutamente essenziale e prepara l’incontro, spiegando gli eventi incomprensibili. L’ascolto illuminato della Scrittura supera gli ostacoli degli occhi impediti, il non veder chiaro lungo il cammino sulle strade del mondo. La cecità è dovuta all’abbandono delle Scritture. Esse rimangono pedagogia del cuore per credere. Quando Luca parla della Scrittura non intende il ricordo storicistico dei fatti ma l’ascolto nella interpretazione di Cristo e nella realizzazione della sua vicenda, quale profezia che anticipa il nostro destino. Questo cammino va accompagnato da domande che ci aiutano a mettere a fuoco le vere questioni della vita.

Come inizia la conversazione dei due discepoli provocati dalle domande del Risorto?  Essi erano saliti a Gerusalemme per la Pasqua assieme a Gesù. (Dice un midrash: domani saremo liberi). E ora i due si stanno allontanando dalla città.

L’informazione che danno a colui che pensano “uno straniero” costituisce di fatto una cristologia arcaica e incompleta riguardante Gesù il Nazareno: di Lui si ricorda il  ministero in Galilea (cf. il discorso programmatico di Gesù fatto nella sinagoga di Nazaret – cap. 4,32, 36; 5,17).

Si rammentano gli eventi di Gerusalemme: “la condanna e l’uccisione da parte dei capi” (Lc. 23,13-35), la tomba vuota e la visita delle donne (Lc. 24,3), la visione degli angeli e l’annuncio che egli è vivo (Lc. 24,4). Ma aggiungono che lui, Gesù nessuno l’ha visto.

Manca la comprensione di quei fatti e soprattutto l’incontro. Abbiamo una memoria di fatti passati senza l’incontro vitale con colui che è risorto. Non può diventare questa la tragica situazione di tante comunità cristiane e di tante nozioni catechetiche? E perfino di tante celebrazioni cultuali?  Una prassi religiosa ridotta ad archeologia senza vita e senza futuro! La risposta dei due discepoli è l’inizio di un vero e proprio annunzio kerigmatico al quale manca tragicamente l’esperienza del Risorto e la comprensione di quei fatti alla luce della Rivelazione (le Scritture).

Per loro Gesù rimane un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo (v. 19). Nella delusione per la morte scandalosa di Gesù c’è in loro la percezione della fine della speranza di una liberazione (v. 21) anche se non modificano il loro giudizio positivo; infatti affermano: “furono i nostri capi ad ucciderlo” (cf. v. 20). Poi ricordano il “terzo giorno” che per la tradizione biblica rappresenta lo spazio in cui solo Dio può operare (v. 21) ma senza percepirne il realismo. Infine nominano la visita delle donne e l’inaffidabilità del loro annuncio (24,11) perché dicono ancora: “ma lui non l’hanno visto” (24,24).Si tratta dunque di un ricordo che è anche uno sfogo; tutto si conclude: “noi speravamo che fosse Lui a riscattare Israele” (v. 21).Colui che le donne non hanno visto ora è là, di fronte a loro”  

A partire dal v. 25 tutto cambia, Gesù prende la parola, ricuce le distanze  e lo scandalo razionale che proviene dalla loro incomprensione ad entrare nella trama del progetto divino che li supera. Adesso è Gesù che spiega gli eventi, alla luce delle Scritture; Egli parte da lontano, da Mosè ai Profeti, fino a quel terzo giorno in cui essi si trovano (v. 27). Nell’episodio precedente gli angeli dicevano alle donne: “Ricordatevi come vi ha parlato” (v. 6). Gesù li aiuta a fare memoria viva del percorso.

L’episodio del Cristo esegeta è gravido del passato ed arriva fino all’incontro nel presente, attraversando e ricordando tutte le promesse divine. Il brano diviene riassunto dell’intera storia della salvezza, in cui il Primo Testamento viene letto nel suo compiersi in Gesù. Egli non cita passi specifici, fa una esegesi che a noi rimane sconosciuta, o meglio aperta. Egli ci insegna il metodo perchè questa storia divenga viaggio e appuntamento con la sua Pasqua. Nella rilettura tutta la memoria salvifica risorge e attualizza il disegno che appartiene a Dio. Si tratta dell’intelligenza che lo Spirito ci dona. La Scrittura si fa così profezia e Cristo diviene il centro della storia. Il disegno consegnato nelle Scritture ci svela il cammino e la meta della storia.

I discepoli sono tacciati di essere senza intelligenza nel capire le Scritture. Essi hanno un cuore tardo (il cuore è la sede del pensiero per la Bibbia). Fuori metafora significa che essi sono inadeguati e rigidi. Saranno proprio le Scritture a ridurre e a chiarire l’apparente contraddizione di Gesù profeta e dell’evento tragico della fine sulla croce: “non doveva il Cristo soffrire per entrare nella gloria?” (v. 26). La vicenda di Cristo passando in mezzo alle vicende umane dovette scontrarsi con resistenze e Dio, suo Padre, chiese a Gesù la determinazione di portare a termine il progetto (cf. Lc. 9,22).

Comprendere il dramma della morte e del rifiuto di Israele nei confronti di Gesù non è ancora tutta la fede cristiana; necessità la confessione che Egli doveva entrare nella gloria da risorto (v. 26).

C’è dunque un “di più” della croce, che consiste nella presenza del Risorto. Ma di quale presenza il Vangelo ci narra?  Innanzitutto la sua presenza lungo la via, mentre ci spiega le Scritture. Al v. 28 abbiamo come una svolta. Gesù, lo straniero sconosciuto, finge di separarsi. Allora i due prendono l’iniziativa per godere ancora di quella presenza e “lo costrinsero a restare dicendo: rimani con noi” (v. 29).

Gesù da straniero diviene ospite. Dalla parola ascoltata sorge il desiderio di averlo come ospite, superando così il sospetto verso l’estraneo. Il racconto si fa preghiera insistente poiché “si fa sera e il giorno ormai declina”. Si tratta di una preghiera che interpreta bene il ruolo di Cristo nella nostra vicenda. Se manca questa presenza fraterna tutto, inesorabilmente, scorre verso il tramonto. Luca insiste dicendo che è una preghiera pressante, che vuole costringere Cristo a rimanere. Quando la notte della prova sorprende la comunità essa deve chiedere e invocare così la presenza di Cristo liberatore.Il Cristo forestiero divenendo ospite (cf. Mt. 25,35) prende il suo posto in mezzo a noi. L’ascolto della Parola pone il segno della Pasqua ed essa è rovesciamento: da tramonto a luce”.

v. 30 – Il secondo momento della presenza di Cristo: la Cena.

“(Kai egheneto en to kataklithenai) = E avvenne che reclinandosi … “(cf. Lc. 24,14).

Il gesto della cena è ricordato sulla scorta dell’Ultima Cena. Esso costituisce il segno per eccellenza della presenza del Risorto in mezzo ai suoi, punto sorgivo e meta conclusiva della vita cristiana. Mettendosi a tavola Gesù li ospita. Dopo aver parlato – vv. 25-27 – egli agisce come il Signore della Cena che presiede, dice la benedizione e dona in continuità il pane (il verbo è all’imperfetto). L’esperienza della mensa pasquale diviene legame di alleanza, luogo del perdono, nutrimento della nostra vita di discepoli.

v. 31 – Gli occhi impediti si spalancano…

Dal verbo “diànoigo” = spalancare. Gli occhi si aprono e divengono vedenti dopo che l’orecchio, organo dell’ascolto, ha assolto il suo compito. Ed ecco il paradosso: ma lui diviene invisibile. C’è ancora qualcosa che lo separa, pur essendo presente. Si rimanda al futuro quando la sua presenza finalmente sarà visibile.

Prima Gesù si fa vedere senza lasciarsi riconoscere; ora si fa riconoscere senza lasciarsi vedere e tuttavia le distanze sono annullate perchè Gesù è riconosciuto il cuore dei discepoli arde, non è più rigido. Essi ora vedono i due poli della Pasqua: la morte non come fine, ma come passaggio e approdo alla vita e la tristezza mutata in gioia.

L’orecchio e il cuore hanno inteso, perciò gli occhi vedono non più un estraneo per loro ma Cristo vivente, non davanti a loro, ma dentro di loro che fa ardere il loro cuore. E’ il vedere della fede, di chi riprende a sperare e suppone l’ascolto della Parola lungo la via della vita.La mediazione della Parola lungo la via fa riconoscere Gesù, il quale apre il cuore.

Cristo si fa compagno di viaggio per diventare nostro ospite, fino ad essere percepito vivente dentro di noi, come forza della Pasqua che arde. Coloro che lungo la via erano stati divisi dagli eventi buttandosi contro parole, ora si parlano fraternamente, illuminati e riscaldati: “si dissero l’un l’altro: non ardeva forse il nostro cuore quando ci parlava nella via, quando ci apriva le Scritture” (v. 32).

L’Eucarestia nella tradizione cristiana, fin dall’inizio è il luogo dove Cristo  ci apre la mente  delle Scritture e ci nutre con la forza della sua Pasqua che fa ardere: ecco il realismo della liturgia eucaristica, molto più ricco della semplice ritualità impersonale.

L’uomo sommerso dal quotidiano affannoso viene appesantito e spesso non sa più leggere né vedere; solo teme e vive il sospetto dell’inutilità di Cristo. Quest’uomo si sente impedito a comprendere il senso della propria vicenda. Se nella sua ricerca accoglie la provocazione delle domande e accetta di ascoltare, pregare e diventare ospite di Cristo, i suoi occhi tornano vedenti. Merita sottolineare un altro particolare: Cristo non ha detto “perché non leggete le Scritture, o tardi di cuore” (v. 25). Egli si è fatto umile compagno di viaggio, che domanda e aiuta a capire fino ad offrirsi ospite vivo dentro di noi. Cristo spiega l’enigma dell’uomo!

Infine Luca non dice: lo videro, ma che lo “riconobbero”; dunque sono caduti gli impedimenti. Nel momento in cui gli occhi si aprono, il Risorto per paradosso non è più visibile, perché egli non è un viandante ma la presenza viva dentro di noi, che riscalda il cuore lungo il pellegrinaggio della vita. La presenza del Risorto si realizza attraverso le Scritture e il segno dello spezzare del pane eucaristico.Emmaus ormai è esperienza della chiesa primeva che si appoggia sulla comunità degli Undici, che fa esperienza del Risorto, riconoscendolo senza vederlo. Il tema è parallelo a Giovanni 20 che narra: “beati coloro che crederanno senza aver visto”.

All’inizio era avvenuto lo smembramento della comunità; anzi al momento dell’arresto persino la fuga dei Dodici. Ora si ha la nascita della chiesa con il Risorto che la incontra e vive nel suo cuore. Anche la memoria è risorta: infatti gli Undici raccontano la loro esperienza: Il Signore è realmente risuscitato ed è apparso a Simone (v. 34); i due integrano e completano con la loro testimonianza raccontando quello che gli altri sanno già: “è vivo e lungo la via si fece riconoscere nella frazione del Pane”!I due pellegrini rappresentano il passaggio dall’incontro immediato dei testimoni alla condizione attuale dove si ripropone la testimonianza storica. E’ la comunità che proclama e diventa l’elemento strutturale della fede cristiana.

Questo cammino di ritorno verso Gerusalemme sembra una conversione. All’inizio del brano i due conversavano di ciò che era accaduto (vv. 13-14). La finale (v. 34) “davvero è risorto”. La parola comunitaria ha come centro Gesù risorto, che accompagna le nostre dispersioni verso un esodo positivo. I due di Emmaus raccontano a noi come è oggi possibile incontrare Gesù dicendoci quello che è accaduto a loro per la via: ossia la spiegazione delle Scritture ad opera di uno sconosciuto compagno di viaggio, il riconoscimento del Risorto (non la visione) nel momento della frazione del pane e la percezione del cuore che arde come trasformazione interiore.

Firmino Bianchin

II Domenica di Pasqua (2020) – “Credere non è vedere”

(Omelia alla Certosa di Vedana, 1971

di p. Tarcisio Geijer, monaco certosino)

Gesù disse a Tommaso: “Beati quelli che pur non vedendo, hanno creduto!”

Credere dunque non è vedere. Credere vuol dire partecipare alla vita di Dio. Perciò la luce che si riceve non è opera nostra, ma opera di Dio, grazia gratuita. Non che questo dono prescinda dall’uomo. C’è un aprirsi alla fede. Ma tra quell’apertura e il dono di Dio non c’è proporzione calcolabile. Credere è dire di sì alla rivelazione di Dio. Sarebbe capir male la rivelazione il considerarla come un gran sistema di verità bell’e confezionato. Essa è prima di tutto un messaggio e una luce: luce di Dio nella nostra vita, sulla storia, sul bene e sul male, sulla morte, su Dio stesso, sul valore ultimo dell’amore.

Per proclamare questa rivelazione bisogna pure servirsi di parole, adottare un certo ordine, una certa connessione. Comunque, tutto ciò non deve mai dare l’impressione che la rivelazione di Dio sia un sistema di cose a sé stanti. Si tratta dello sguardo di Dio sulla nostra realtà. Vedere con gli occhi della fede, è vedere con gli occhi di Dio. La nostra fede non sopravvive senza di noi. È un qualcosa su cui si può fermare la nostra attenzione e la nostra cura, oppure che si può trascurare. Perciò la fede è un impegno.

Chi nel suo intimo riconosce la rivelazione di Dio, ha ancora una lunga strada da percorrere davanti a sé. Si tratta di realizzare la più profonda verità cui si crede, ma che non si vede e che spesso non si sente. E ogni volta di nuovo è un salto nel buio. Quando si è soggiogati dalla dolcezza di una tentazione, è un salto nel buio mettere in pratica la fede e dire di no, che è poi un sì, a coloro ai quali si vuol rimanere fedeli, ed è anche un sì a Dio.

Quando si incontrano soltanto contrarietà nella vita quotidiana, richiede una grande dedizione credere nello Spirito santo e, di conseguenza, nella possibilità, per sé e per gli altri di essere buoni. Quando si è sopraffatti da una sofferenza assurda, è atto di gran fede rendersi conto della fedeltà di Dio e del fatto che Gesù ha dato senso alla sofferenza. Il credere non è, perciò, un’inavvertita iscrizione continuata alla Chiesa.

Il credere è sempre in relazione con un adesso. Credere che Dio, adesso, non può lasciarci soli; che Dio, adesso, può dirigere il corso delle cose; più ancora: che Dio, adesso, col suo amore, può operare un miracolo, come talvolta nella tempesta sul lago: “Ed egli si alzò e rimproverò il vento e disse al mare: Taci, sta fermo! E il vento cessò e subentrò una grande calma. E Gesù disse ai discepoli: Perché mai siete così spaventati? Non avete proprio nessuna fede?”. Il credere è una vittoria sulla nostra diffidenza verso il mondo di Dio.

Come Tommaso possiamo anche dubitare nella nostra fede: avere tentazioni e difficoltà nella fede. Ma di per sé, la presenza del dubbio non pregiudica la certezza della nostra fede. Un dubbio straziante può essere accompagnato da un totale abbandono, da una fede salda come la roccia. Anzi, proprio una fede salda può conoscere spesso seri dubbi. Ma la fede tentata rimane fede intera. La fede genuina è sempre intera. Non si è per metà credenti e per metà increduli. Fintanto che uno può dire: “Sì, voglio credere”, è interamente credente.

Volti del Mattino di Pasqua – 2020

 

Al nostro mattino pasquale si affacciano, attraversando il tempo, nella sempre sconvolgente novità dell’annuncio evangelico, volti che ci accompagnano a riconoscere  e confessare il Cristo risorto dai morti. E’ il desiderio e il pianto per la “perdita del Signore” di Maria di Magdala, che solo il Risorto “converte” e fa “voltare”, fino ad affidarle il compito dell’annuncio di Risurrezione; è la ricerca e la corsa al sepolcro dei due discepoli, e la capacità del discepolo amato da Gesù di scrutare e scorgere la sua presenza “attraverso i segni”, è l’ostinazione e la curiosità di “toccare” il Signore di Tommaso, che non si accontenta di “riconoscerlo” per sentito dire…

L’assenza e il desiderio di incontrarlo, la sollecitudine e l’intelligenza del cuore per riconoscerlo, l’ostinazione di farne una esperienza diretta, personale, per poter confessare, ancora oggi: “mio Signore, mio Dio”.

Volti e tracce sul nostro mattino di Pasqua . Il Vangelo di Giovanni ci guida…

Maria di Magdala…

Il primo dei giorni, prestissimo, era ancora buio, Maria Maddalena va al sepolcro – vuoto – e corre da Simon Pietro e dal discepolo che Gesù amava dicendo: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, ma non sappiamo dove l’hanno messo” (cf. Gv. 20,1).

L’assenza è un dramma, è il buio, un mattino non nato. Gesù di Nazaret non c’è,  e con lui non si può stabilire nessuna forma di contatto. L’incontro con questo primo volto della Pasqua – Maria – non è una cronaca ma una sfida nel tempo presente al discepolo di Gesù crocifisso e risorto. L’annuncio dell’assenza: “hanno portato via il corpo del Signore” nella forma del plurale risuona nell’oggi, anche se non ci rendiamo forse conto di quanto possa pesare per la nostra vita questa incapacità di “vederlo”…

Maria di Magdala rimane presso il sepolcro, all’esterno, in pianto. Non vi è nessun movimento; immobilizzata dall’evidenza della morte, incapace di voltarsi. “Vede Gesù ma non sa che è Lui”. Lo vede e non lo incontra. Il Vangelo di Giovanni indugia sul pianto di Maria, sull’incapacità di riconoscere il Signore risorto. E scruta le paralisi di ogni discepolo, in lei, che si ricreano quando la ricerca di Lui non va per la via che egli stesso insegna. Maria non muove i passi verso la vita perché ferita e angosciata da un affetto ferito mortalmente. Il volto del pianto è sul passato, sul già conosciuto, sul buio della notte di morte, sul sepolcro vuoto, sulla certezza che “l’abbiano portato via”… Maria ha visto ciò che vediamo anche noi- nel momento dell’Eucaristia. Nei simboli della descrizione evangelica il posto occupato dal cadavere di Gesù è sostituito da un annuncio trascendente (angeli in vesti bianche). Nel luogo del cadavere c’è un annuncio!

“Perché piangi”? la domanda di Gesù è come un piegarsi attento e sollecito a rompere il circolo vizioso del senso di morte che prende di fronte a una perdita considerata ormai irreparabile. E’ un invito a rimettersi in cammino, anche se Maria volta le spalle al “mattino della Pasqua”, non riconoscendo la luce del Risorto che le parla. Lo interroga: “se l’hai portato via tu, dimmi”… Il suo amore non basta a riconoscerlo. Gesù stesso, chiamandola per nome, la invita a “trasfigurare” il suo amore, il suo sguardo accecato dal pianto. Occorre “convertire” il desiderio della ricerca, il nostro stesso sguardo, accogliere un legame con il Cristo che “sale al Padre” (Gv. 20,17); il mistero della Risurrezione chiede il cambiamento radicale del nostro “modo di cercare” il Signore.

Gesù consegna un “ordine”: “va’ dai miei fratelli e dì loro: Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Il Risorto insegna a Maria come lo si deve cercare e solo ora può annunciare: “Ho visto il Signore”! (20,18).

I due discepoli…

Alla notizia di Maria: “hanno portato via il Signore dal sepolcro, ma non sappiamo dove l’hanno messo”, due discepoli  Simon Pietro e il discepolo che Gesù amava “partono e vanno al sepolcro. “Correvano insieme, loro due. Ma l’altro discepolo corre avanti più veloce di Pietro. Arriva per primo al sepolcro. Si china, scorge le bende per terra. Ma non entra. Anche Simon Pietro arriva al sepolcro. Entra e osserva le bende per terra, e il sudario per coprire il capo, non per terra con le bende, ma a parte, piegato in un angolo. Entra allora anche l’altro discepolo, quello arrivato per primo al sepolcro: ed ecco, vide e credette” (Gv. 20,3-8).

L’evidenza che ha paralizzato Maria provoca nei due discepoli un movimento. La corsa è il simbolo della ricerca. Ma non ogni ricerca porta a “vedere e credere”. Il Vangelo mostra l’amore di una relazione come una “corsa veloce”, un chinarsi a scorgere segni e comprenderne il significato. Uno spazio riflessivo, una sosta su “quel lenzuolo appiattito”. E’ un indizio importante, in contrasto con l’evidenza di un “cadavere rubato”. Il discepolo amato da Gesù scorge un particolare che sembra insignificante; la percezione di chi cerca amando è acuta, sa “vedere e credere”, coglie anche le sfumature che l’evidenza vorrebbe smentire. La relazione viva con il Signore conduce il discepolo ad una certezza: la vita non può dissolversi nella morte dopo aver fatto l’esperienza della figliolanza con il Dio vivente. Noi subiamo la morte, ma Dio non è prigioniero di questa fragilità…

Il discepolo amato vive nel tempo questa relazione “originaria” che restituisce alla vita.

…”Alla sera dello stesso giorno Gesù Risorto prende il posto nella comunità : “stette in mezzo”. Lui, presente, nella sua condizione di morto e risorto, “mostra le mani e il costato”. E’ la manifestazione della pienezza sorgiva della sua condizione; egli sta al centro con la forza della sua morte e risurrezione (cf. Gv. 20,19ss.).

Viene come risorto e “alita lo Spirito su di loro”. Non più il soffio che dà vita al fango (come in Gen. 2,7)ma un soffio che ricrea l’umanità, trascinandola dalla condizione di fragilità a quella della figliolanza e fraternità.

Tommaso detto Didimo…

Didimo significa gemello. Tommaso è gemello della nostra umanità, diffidente, curiosa, ostinata… Tommaso non è con il gruppo quando viene Gesù (cap. 20,24) e non si fida di quelli che gli dicono “abbiamo visto il Signore”. Si parla facilmente di incredulità, ma potremo arrischiare di dire che egli ci provoca a non “fare affidamenti impersonali”… La rivendicazione di Tommaso si esprime con: “Se non vedo, se non tocco, se non metto la mano, allora non credo” (Gv. 20,25)…; non gli basta la mediazione degli altri fratelli.

Gesù lo richiama, pure acconsentendo alla sua richiesta dicendogli “non essere più incredulo, ma credente”. Un altro movimento della ricerca del Risorto, un dinamismo affascinante segnato da un equilibrio fragile, in cui la mediazione dell’annuncio e la responsabilità della ricerca personale sono entrambe  necessarie e sempre da tenere legate.

La fede della chiesa dipende da questo primo gruppo di testimonianza, ma occorre anche una vera audacia, più volte richiamata nelle pagine evangeliche. E’ il coraggio della fede come itinerario esistenziale, dove “tutto di noi stessi” viene chiamato alla risposta, in un rincominciamento radicale, luminoso come la luce del Risorto, che rompe le catene della morte, che asciuga le lacrime, che rilancia umane e ragionevoli diffidenze.

Solo l’affidamento può condurci all’esperienza pasquale, alla confessione: “Signore mio, Dio mio”. E’ un legame inscindibile, personale, che ci porta oltre al desiderio di “toccare, di investigare… Tommaso ha creduto. E’ la beatitudine più grande, e questa è donata.

La cecità del pianto di Maria di Magdala lascia il posto alla luce, in questo mattino di Pasqua. I discepoli oggi, confessano che il Signore risorto è presso il Padre e al contempo “con noi”, nell’assemblea credente, come mediazione assoluta, da cui discende la forza della risurrezione. Noi ci accostiamo non con la pretesa di un contatto fisico, ma con l’affetto e la responsabilità, con la sollecitudine della ricerca che si affida a Gesù risorto. “Signore mio, Dio mio”. E’ la confessione che ci riconosce “beati”, perché credenti, pur senza aver visto!

(F.C.)

 

 

 

VEGLIA PASQUALE 2020

E’ progettata come madre di tutte le Veglie, Notte nella quale il Cristo è risorto dai morti. Notte di Veglia in onore del Signore (Es. 12,42). I fedeli portando in mano la lampada accesa, il simbolo di chi attende il Signore. Quando Egli verrà ci trovi vigilanti e ci inviti alla sua mensa (Lc. 12,35-37). Il Risorto si rende presente attraverso dei gesti simbolici

La celebrazione della luce;

la meditazione delle opere di Dio, evento sempre nuovo. Noi ascoltiamo per vedere, oggi, gli eventi di Dio, confidare nelle sue promesse;

la liturgia battesimale ricorda la nascita incessante dell’uomo nuovo;

l’invito alla Cena che il Signore prepara, anticipazione della Cena alla quale parteciperemo nella condizione di Risorti.

E’ LA NOTTE DELLA PASQUA IN ONORE DI JHWH, NOTTE FISSATA 

PER LA SALVEZZA DI TUTTE LE GENERAZIONI

La Prima Notte (Gen 1,1-2,2)

quando JHWH si manifestò al mondo attraverso la creazione. Dio crea il mondo in 7 giorni e 10 parole, che corrispondono a 10 opere distribuite nella settimana.

Tre giorni sono particolarmente importanti:

il primo: inaugura l’alternanza del giorno e della notte

il quarto: Dio crea gli astri, vale a dire dona al mondo il calendario, segnalando la funzione delle feste e il ritmo del tempo, finalizzato alla meta del Sabato. Un modo biblico per dire: Dio è presente lungo il tempo e accompagnerà il popolo nella peregrinazione, finchè giungerà alla terra promessa, il Settimo giorno. Il Nuovo Testamento chiama questo giorno di compimento il Giorno Uno della Nuova Creazione: l’ottavo.

Antifona: n 331 (strofa 15)

La Seconda Notte (Gen 22,1-18) – (non si proclama)

Condanna i sacrifici umani ed esalta l’obbedienza di Abramo, maturata nei tre giorni di cammino silenzioso verso il monte, dove Dio “vede” e provvederà. Dio non ruba ma dona! E’ la Notte della fede e dell’obbedienza, nella quale il Signore ci trasforma con la sua benedizione.

Salmo 15 (n 152)

1      Lettore: La terza Notte (Es 14,15-15,1)

Episodio chiave della storia di Israele, in cui Dio manifesta il suo volto, liberando l’oppresso dalla casa degli schiavi; così Israele diventa popolo di Dio. Un forte vento dall’est prosciuga il mare, gli egiziani arrivano da ovest e si trovano l’acqua di fronte. Un secondo racconto, più spettacolare: il mare è diviso da Mosè. La fede di Israele confessa la sovranità di Dio sulle forze oppressive della natura e dei popoli. La salvezza è operata da Lui, non da eroi. Mosè è il suo servitore. Israele nasce da Dio, non da potenze umane.

Antifona n. 523 (strofa 2)

2      Lettore: La Quarta Notte (Is 54,5-14 + 55,6-11)

Quando il mondo raggiungerà la meta e i gioghi di schiavitù saranno spezzati.

E’ la Pasqua del rinnovamento. Gerusalemme ritroverà il suo Sposo. Il ripudio è stato momentaneo, prevale l’amore. Dio promette l’Alleanza unilaterale, fondata nella sua fedeltà e misericordia. I monti possono tremare, e persino cambiare di posto, l’amore di Dio non vacillerà.

Antifona n 622 (strofa 2)

3 Lettore Baruc 3,9-15.32-4,4

Abbandonare la Parola di Dio equivale ad abbandonare la fonte della Sapienza. Cammina Israele, allo splendore della sua luce!

Antifona /Salmo 92 (n 285)

 

Ez 36,16-28 (non si proclama)

Le forze della nostra trasformazione provengono dal “Vento interiore” di Dio. Esso trasforma l’intimo della nostra persona.

GLORIA – n 961

4    Lettore: Lettera ai Romani cap 6,3-11

Nell’immersione Battesimale Gesù ci partecipa la sua morte. L’aspetto più importante è la partecipazione alla sua vita di Risorto, che si attua gradualmente lungo il cammino. Così Dio Padre ci indirizza a diventare conformi all’immagine del Figlio suo.

Alleluia (n 964 – 3 volte)

A La pietra scartata dai costruttori

B e divenuta testata d’angolo

A ecco l’opera del Signore:

C una meraviglia ai nostri occhi.

Vangelo di Matteo cap 28,1-10

RINNOVO DELLE PROMESSE BATTESIMALI

Cel. Rinnoviamo la volontà di seguire Cristo. Con il Battesimo avete già iniziato il cammino di conversione al Signore e a rispondere alla sua chiamata; è necessario che questo cammino si approfondisca.

Tutti: confidando nell’amore di Dio noi lo faremo.

Cel. Tendete dunque verso l’amore autentico di Dio Padre, che esclude ogni timore e si affida alle sue promesse.

Tutti: con l’aiuto di Dio noi lo faremo.

 

Cel. Impegnatevi ad ascoltare la Parola e a dialogare con Dio nella preghiera, non emarginandolo dalla vostra esistenza

Tutti: quanto il Signore Dio nostro ha detto, noi lo faremo.

Cel: Rimanete vigilanti di fronte alle ideologie culturali che mutilano il Vangelo, dissacrano i poveri e la dignità delle persone

Tutti: quanto il Signore nostro Dio ha detto, noi lo faremo e Lui solo vogliamo servire.

Cel. L’incontro con Gesù nella Scrittura ci conduce all’Eucarestia dove lo Spirito agisce: ci illumini e ci trasformi

Tutti: il Signore ci aiuti a compiere il suo disegno e a ringraziarlo per i suoi doni.

Antifona n 608/Salmo n 162

Santo n 976

Acclamazione n 957

Agnello di Dio n 977

Canto di Comunione n 604/606

Canto finale n 878

Insieme alla Pasqua

Nella Pasqua ebraica i bambini iniziano il rito chiedendo:

“Perché questa notte è diversa da tutte le altre”

Non siamo bambini, ma questa domanda risuona

Tacitamente per alcuni,

con forza e con sfida per altri.

Con voi

Non per modo di dire…

I vostri volti qui, nella liturgia quotidiana,

in un pensiero reso acuto dall’assenza.

La Quaresima tra fragilità e Promessa,

la riflessione delle Lectio bibliche condivise

con i testi, stavolta,

ma non diverse, nella fedeltà alla Scrittura…

 

Non c’è una comunità virtuale,

ma quella che condivide, comunica e prega.

Insieme, anche nella distanza.

Nell’assenza ci sono tutti i nomi,

i volti, i suoni, le domande, il canto,

il saluto, prima di tornare alle famiglie,

alla casa, alla quotidianità.

Ecco, con voi, non per modo di dire

In una “clausura” diffusa, obbligata

Per noi e per voi.

Confinamento di spazio e di relazioni,

di gesti, di condivisione.

E andando verso la Pasqua,

in questi giorni che rimangono Santi,

il contrasto tra “clausura sanitaria” e

sconfinamento donatoci,

lo sguardo che impara ad essere contemplativo

è per tutti una sfida.

Grande.

(F.C.)

Sera del Giovedì Santo 2020

Prologo della celebrazione della Cena del Triduo pasquale

II Giovedì Santo può essere considerato come l’ultimo giorno della Quaresima e prologo del Triduo Pasquale di Passione, Morte e Risurrezione di Gesù, punto di arrivo della liturgia annuale e dell’intera nostra vita. La devozione ha riempito questo giorno di molti temi e non è facile far risaltare ciò che Io caratterizza.

La lavanda dei piedi anticipa i contenuti degli eventi pasquali divenendo segno sacramentale del dono dì Cristo, soglia del transito pasquale da invocare come salvezza per la chiesa e l’umanità.

Nella Celebrazione vespertina, Gesù raduna la sua comunità per la Pasqua imminente e prega con essa.

Schema celebrativo domestico 

La memoria pasquale attualizza la consegna totale di Gesù agli uomini con l’amore che giunge al vertice, presenza attiva della Morte e Risurrezione.

Antifona: Il Signore salva il suo consacrato, a lui risponde dal suo cielo santo.

Salmo 20 (Per chi ha il Salterio di Camaldoli Antifona e Salmo n 157)

Preghiera: O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la Santa Cena nella quale il tuo unico Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, fa che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita.

Prima Lettura – Es 12,1-14

Dio parla, la sua voce misteriosa è narrata e giunge fino a noi questa sera. Se il tuo bambino ti chiede: “Che cosa è per voi, Papà e Mamma, quello che fate?” Voi spiegherete: “E’ la Pasqua, il passaggio dall’oppressione alla vita che il Signore ci dona”.

L’immolazione del suo Figlio Gesù è la forza che ci fa uscire dai nostri drammi. Il dolore rimane, come pure la fragilità e la paura, e infine la morte, perché così è la vita! Ma Dio ora le trasforma in uscita, in parto (Gv 16,21). Vivere è fare esperienza di minacce e desiderio di pienezza, di paura e di speranza.

Nell’immolazione e morte dell’Agnello, Figlio di Dio, tutto sembra finito, in realtà tutto comincia e va verso la pienezza. Ora parla l’Agnello Pasquale: “Sapendo Gesù che era giunta la sua Ora, di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li ama all’infinito (Gv 13,1). Ecco la forza che fa passare (Pasqua) le nostre vite storiche spesso impoverite e spaventate, verso la pienezza da tutti desiderata e sognata.

La vita (l’Egitto) sembra il granaio che ci nutre, poi all’improvviso tutto muta e si trasforma in reale e invisibile oppressione. Prevalgono buoni sentimenti, persone che rischiano per salvare, si apprezzano le buone relazioni, si detestano coloro che con furbizia traggono vantaggi egoistici da situazioni di prova; la malvagità non è tollerata.

Si invoca Dio, perché è la Pasqua, il passaggio del Signore che ci libera. La creazione tutta, uomini e cose, nutrono la speranza di essere liberati dalla schiavitù che ci distrugge, per entrare nella libertà della vita luminosa dei figli di Dio (cf Rom 8,19-21).

Salmo responsoriale 116 b

Antifona: Il tuo calice è dono di salvezza

Seconda Lettura – 1Cor 11,23-29

La memoria Eucaristica della Pasqua e la nostra verità 

Persone benestanti a cui non manca nulla, e altri ai quali manca molto, o anche tutto. Se la posizione sociale di alcuni impedisce di vedere il contesto drammatico che ci circonda, o comunque di ignorarlo, non celebra l’Eucarestia. La ritualità per quanto santa, non porta automaticamente all’incontro con Cristo; una frequenza senza discernimento trasforma la Cena del Signore in autocondanna.

Eucarestia e perseguimento di interessi personali egocentrici si oppongono! La ritualità diventa allora una scena che non cambia la vita. L’autoreferenzialità non può comunicare, e se non ci si educa a ripensare le condizioni di privazione e le cause, non si testimonia nella storia la vita di Colui che si offrì.

Acclamazione al Vangelo: – Questo è il mio comandamento: amatevi come io vi amo”:

Dal Vangelo secondo Giovanni, cap 13,1-17

Giovanni allude all’Ultima cena senza descriverla; parla invece dell’ora definitiva di Gesù, come passaggio da questo mondo al Padre; culmine del suo amore per noi che avviene nel contesto di tradimento, opera del diavolo. Gesù, conscio del suo potere sa di ritornare al Padre dal quale era venuto.

Poi una cascata di azioni simboliche, scandite da otto verbi

  • si alza
  • si toglie la veste
  • prende l’asciugamano
  • se lo cinge
  • versa l’acqua
  • inizia a lavare i piedi
  • riprende la veste
  • si siede.

Nella piena coscienza di sé e degli avvenimenti, nella gioia della festa, nell’intimità con gli amici, profondamente rattristato e spaventato che uno dei dodici lo consegni (13,21), Gesù fa dono della sua vita nel lavare i piedi, nel boccone dato a Giuda, nella parola rivolta a Pietro e ai discepoli nel comandamento nuovo. Nell’amore che giunge a pienezza Gesù compie la glorificazione della Pasqua annunciata: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

La sua morte diventa modello e forza: “VI ho dato l’esempio”: Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 

Proposta

Lettura del Canone quarto (cf Messalino o da internet)

Dopo la dossologia: Padre nostro e cena familiare.

Alcune considerazioni di W. Kasper da: “Misericordia”, GdT 361, Queriniana pag 83.

“Di fronte a Dio viene meno qualsiasi teologia per quanto intelligente; egli non entra in nessuno schema. Non possiamo parlare superficialmente né del Dio giusto, né del Dio misericordioso, come se questa fosse la cosa più ovvia del mondo. Nel nostro linguaggio possiamo dire: la misericordia è la rivelazione della trascendenza di Dio al di sopra di tutto l’umano e al di sopra di tutto l’umanamente calcolabile. Nella sua misericordia Dio si rivela come il totalmente altro e paradossalmente, nello stesso tempo, come il totalmente a noi vicino. La sua trascendenza non è una lontananza infinita e la sua vicinanza non è una familiarità priva di distanze. Il Dio misericordioso non è semplicemente il “buon Dio”, che lascia correre le nostre malvagità e le nostre negligenze. Al contrario, la sua vicinanza salvante è espressione della sua alterità e del suo nascondimento incomprensibile) Is 45,15). Proprio come il Deus revelatus vicino e manifesto egli è il Deus absconditus. La misericordia di Dio ci rimanda al suo essere totalmente altro e alla sua completa incomprensibilità che è nello stesso tempo l’incomprensibilità e l’affidabilità della sua grazia e del suo amore”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verso la Pasqua Massimo Grilli

Ci è giunta questa lettera-riflessione di Massimo Grilli, che di recente ha tenuto a S. Maria in Colle il corso sui Vangeli dell’infanzia e la condividiamo…

Care amiche e cari amici,

con una certa difficoltà ho deciso di inviarvi qualche mia riflessione sul periodo che viviamo. Siamo in una situazione in cui le parole si rivelano del tutto inadeguate. E tuttavia, pur nell’incompiutezza e nella frammentarietà, abbiamo il dovere di scambiarcele, perché il frammento ci rinvia sempre a qualcosa di compiuto, che ha un senso, anche se non ci appartiene, ma che comunque sappiamo che esiste.

La prima parola, spontanea, che mi viene sulle labbra in questa tragica circostanza è “fragilità”. Poche volte, come oggi, anche il nostro occidente, di fronte a un nemico invisibile, prende coscienza della sua caducità. Dico “anche il nostro occidente” perché, in tante altre regioni del mondo, la coscienza che il limite contrassegni la sorte dell’uomo è pane quotidiano. La malaria, ad esempio, una malattia conosciutissima e controllabile, continua – inspiegabilmente, e sotto lo sguardo indifferente dei più – a mietere quasi mezzo milione di vittime all’anno, con il coinvolgimento del 60% dei bambini al di sotto dei cinque anni. Riscoprire la caducità è principio di saggezza, perché la prima regola per venire alla luce è di non mentire di fronte ai fatti. In un momento così delicato, riconciliarci con la nostra fragilità è la condizione senza la quale nulla può ricominciare. La speranza è che tutti possiamo recuperare almeno la saggezza del giorno dopo, dato che quella del giorno prima non ci appartiene. Dobbiamo far sì che le nostre relazioni non siano più regolate dall’arroganza e dalla presunzione, ma dalla consapevolezza di condividere una condizione di base: siamo argilla fragile. È un dato costitutivo del nostro essere e niente è possibile senza questa verità. Non ho molta fiducia che in occidente, dopo questa violenta crisi, si arrivi a questa saggezza del giorno dopo, ma forse a noi credenti è chiesto di testimoniarlo.

La seconda parola che mi sgorga dentro è: “perché?”. Come Israele nel tempo, dell’esilio, continuo a chiedermi: “perché?”. Penso alle ultime parole del Crocifisso, secondo Marco e Matteo: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Perché una morte così crudele per tanti esseri umani, senza una carezza, senza una parola di consolazione, senza una lacrima delle persone care? E perché proprio i più indifesi, i più deboli: i vecchi, i malati, quelli più segnati dalla crudeltà della vita… tutti quelli che i Salmi pongono costantemente sotto le ali del JHWH, Colui che si prende cura di loro e li protegge…? Ancora una volta la Parola di Dio viene smentita dai fatti. Soprattutto in questo tempo, ho pensato spesso al romanzo dello scrittore franco-algerino Albert Camus – La peste – e all’incredulità del dottor Rieux di fronte alla sofferenza innocente; ho pensato all’indice rivolto verso il cielo: “Tu vedi, vedi, Lui tace!”. È vero che, spesso, Dio tace perché gli uomini – con la loro arroganza e il loro cinismo – lo hanno messo a tacere, ma non può essere solo questa la ragione del silenzio di Dio, soprattutto in certi momenti, quando ogni sicurezza umana è stata annientata da un virus invisibile. Ci sono tempi, nella vita – e sono questi – in cui appaiono con maggior evidenza le debolezze della natura umana, in cui ci rendiamo conto che esistono cose più importanti delle nostre consolazioni a buon mercato, dei nostri orticelli spirituali, del conoscere e affermare sé stessi. Siamo in un momento in cui abbiamo coscienza che le utopie della modernità non ci hanno portato oltre la solitudine e la morte… Ma proprio per questo – proprio perché la situazione si è fatta desolata, assurda e disperata – ci chiediamo: “perché?”. Abbiamo bisogno di una Presenza. Si sente bisogno di un amico nei giorni dell’impotenza più che in quelli dell’onnipotenza. Il potente di turno ha sempre “followers” intorno a sé, ma chi è disperato, chi è solo, non ha nessuno.  Come nel momento dell’esilio di Israele a Babilonia, in questa disperata solitudine che attraversa le nostre città e le nostre case, siamo forse chiamati a ripensare e interrogarci sull’immagine che abbiamo di Dio e dell’uomo.

A ripensare l’immagine di Dio, anzitutto. Abbiamo sempre immaginato il Dio “onnipotente”, dispensatore di benessere e di prodigi e lo abbiamo cercato nei santuari, nei riti, nei ministri della chiesa… Oggi, in questo momento decisivo, siamo senza messa, senza ministri, senza chiese… e senza miracoli. Ecco allora la domanda: non siamo chiamati a riscoprire ciò che è a fondamento della fede, il mistero che è al di là del segno, ciò che è oltre? Non sto dicendo che possiamo vivere senza segni; dico solo che, diventati ministri tuttofare, corriamo il rischio di perdere l’essenziale, di perdere Colui senza il quale i santuari, i pellegrinaggi e preti sono tromboni che risuonano e cembali che tintinnano. Non siamo chiamati in questo momento a riscoprire la Parola, la “nostalgia” della Parola e dell’Eucaristia, in una fede autentica, lontana dagli orpelli, dai fronzoli di cui l’abbiamo rivestita? Non siamo chiamati a incontrare Dio nell’unico santuario degno di questo nome: l’uomo e, anzitutto, l’uomo crocifisso? Non esiste un mondo sacro e un mondo profano: ciò che è di Dio esiste solo nelle cose profane.  Non a caso, nel momento in cui Gesù muore, il velo del tempio si squarcia e un pagano “vedendolo morire così” proclama Gesù “figlio di Dio”. Non è più il tempio il luogo di accesso a Dio (né quello di Gerusalemme, né quello dei tanti Garizim sparsi nel mondo) ma il Crocifisso, e i crocifissi: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero infermo e siete venuti a visitarmi, ero nudo e mi avete vestito…”.

Con l’immagine di Dio è necessario ripensare anche l’immagine dell’uomo e delle creature tutte. Mi ha colpito come, in questo tempo e in questo mondo così interconnesso da essere ormai quasi indistintamente votato alla vita o alla morte, sia stato detto che è fondamentale il recupero della “distanza” (almeno un metro, ci dicono!). Al momento dell’ingresso del virus nel nostro contesto italiano, stavo offrendo alla Pontificia università gregoriana un corso sul «Volto, epifania e mistero» e cercavo nella Bibbia i fondamenti di come si possa essere in comunione soltanto nel rispetto della distanza. È ovvio che la distanza non coincide con l’estraneità. Il libro dell’Esodo racconta che Dio scende verso il suo popolo, ma il popolo deve stare a distanza; anzi Mosè, il servitore per eccellenza, pur essendo il confidente di Dio, deve rimanere a distanza. La comunione non è simbiosi né affastellamento, ma relazione dialogica. La donna, nella Genesi, è presentata come una-che-sta-di-fronte all’uomo, sia perché l’essere umano è destinato a trovare il senso della “sua” vita solo di fronte a qualcuno che ci mette in questione, sia perché l’altro/a, nell’essere di fronte, è veramente un “tu” che non si può né catturare. La tentazione dell’uomo è sempre la stessa: inglobare l’Altro, invece di riconoscere che l’altro esiste prima di ogni mia iniziativa e ogni mio potere. Riconoscere la distanza, dunque, è più importante dell’empatia e del contatto immediato. Ha scritto la poetessa Candiani: “noi non sentiamo… il corpo dell’altro: non sentiamo quando sta tremando di fianco a noi, quando ha paura, quando si sente offeso e ferito. Forse il metro di distanza ce lo insegnerà?”. Vale anche per le altre creature. Purtroppo, diverse componenti che hanno strutturato la civiltà ebraico-cristiana, hanno interpretato il genesiaco “soggiogare” e “avere dominio su ogni essere vivente” in maniera fondamentalista e criminale. Oggi ci accorgiamo di essere al punto di non ritorno. Ne dovremo rendere conto a Dio e ai futuri figli degli uomini. Io spero che la diffusione di questo virus, a cui non è certamente estranea la situazione della nostra terra, ci porti tutti a un fecondo ripensamento.

È alle porte la settimana della passione-morte-risurrezione del Figlio dell’uomo, Colui che per noi cristiani incarna l’immagine autentica di Dio e l’immagine autentica dell’uomo. Gli eventi della croce ci dicono che la sconfitta, la solitudine e persino il peccato dell’uomo (sì, anche il peccato) appartengono ormai a Dio e vengono assunti nel mistero di salvezza. La notte di Pasqua, nel buio e nel deserto delle nostre chiese, qualcuno canterà: o felix culpa!  Il grande sabato – come lo chiama la tradizione orientale – quello che precede la Pasqua, è un giorno di silenzio: il giorno della tomba silenziosa e deserta. Un’antica omelia sul grande sabato attribuita a Epifanio, recita: «Oggi sulla terra c’è un grande silenzio, grande silenzio e solitudine». È il silenzio di un’ulteriore kenosis, come canta ancora la liturgia bizantina al mattutino del sabato santo: «sei disceso per cercare Adamo, e non avendolo trovato sulla terra, o Signore, sei andato a cercarlo fino agli inferi!». E ancora, un’antica omelia siriaca: «Il creatore di Adamo ha visitato Adamo negli inferi; è sceso, l’ha chiamato: “Adamo dove sei?”, come gli aveva detto nel giardino (Gen 3,9). Quella stessa voce che lo aveva chiamato tra gli alberi, è discesa per chiamarlo tra i morti».

Il giorno del grande silenzio diventa, paradossalmente, nel mistero di Cristo,  il giorno della Ricerca, dell’Incontro e dell’Amore. Ha scritto il testimone della chiesa confessante Dietrich Bonhoeffer: «in Gesù di Nazareth, Dio … vuole essere là, dove l’uomo non è più nulla… Dove è Gesù, c’è l’amore di Dio. Ma la documentazione comincia ad avere tutta la sua serietà, quando Gesù o l’amore di Dio… assume su di sé anche il destino che sovrasta ogni vita, la morte, cioè quando Gesù, che è l’amore di Dio, muore realmente; solo così l’uomo può diventare certo che l’amore di Dio lo accompagna e lo guida anche nella morte; e la morte di Gesù crocifisso come un delinquente mostra che l’amore divino trova la strada per arrivare fino alla morte del delinquente; e se Gesù muore sulla croce gridando: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), questo significa… che l’eterna volontà di amore di Dio non abbandona l’uomo nemmeno là dove egli dispera per l’abbandono di Dio”. Sì, Dio non ci abbandona neanche quando noi disperiamo della sua Presenza. È stato detto che ci sono bestemmie di uomini disperati che sono più accette a Dio di tante lodi di uomini benpensanti. Chi muore, in questi giorni, non ha probabilmente né la forza per maledire, né la coscienza e l’energia necessaria per pregare. È semplicemente solo. Questa solitudine però è abitata da Dio. Forse, è proprio a partire da questa solidarietà che potremo trovare la forza di nascere a vita nuova. È l’augurio che ci facciamo.

Santa Pasqua!

Massimo Grilli