Ci è giunta questa lettera-riflessione di Massimo Grilli, che di recente ha tenuto a S. Maria in Colle il corso sui Vangeli dell’infanzia e la condividiamo…
Care amiche e cari amici,
con una certa difficoltà ho deciso di inviarvi qualche mia riflessione sul periodo che viviamo. Siamo in una situazione in cui le parole si rivelano del tutto inadeguate. E tuttavia, pur nell’incompiutezza e nella frammentarietà, abbiamo il dovere di scambiarcele, perché il frammento ci rinvia sempre a qualcosa di compiuto, che ha un senso, anche se non ci appartiene, ma che comunque sappiamo che esiste.
La prima parola, spontanea, che mi viene sulle labbra in questa tragica circostanza è “fragilità”. Poche volte, come oggi, anche il nostro occidente, di fronte a un nemico invisibile, prende coscienza della sua caducità. Dico “anche il nostro occidente” perché, in tante altre regioni del mondo, la coscienza che il limite contrassegni la sorte dell’uomo è pane quotidiano. La malaria, ad esempio, una malattia conosciutissima e controllabile, continua – inspiegabilmente, e sotto lo sguardo indifferente dei più – a mietere quasi mezzo milione di vittime all’anno, con il coinvolgimento del 60% dei bambini al di sotto dei cinque anni. Riscoprire la caducità è principio di saggezza, perché la prima regola per venire alla luce è di non mentire di fronte ai fatti. In un momento così delicato, riconciliarci con la nostra fragilità è la condizione senza la quale nulla può ricominciare. La speranza è che tutti possiamo recuperare almeno la saggezza del giorno dopo, dato che quella del giorno prima non ci appartiene. Dobbiamo far sì che le nostre relazioni non siano più regolate dall’arroganza e dalla presunzione, ma dalla consapevolezza di condividere una condizione di base: siamo argilla fragile. È un dato costitutivo del nostro essere e niente è possibile senza questa verità. Non ho molta fiducia che in occidente, dopo questa violenta crisi, si arrivi a questa saggezza del giorno dopo, ma forse a noi credenti è chiesto di testimoniarlo.
La seconda parola che mi sgorga dentro è: “perché?”. Come Israele nel tempo, dell’esilio, continuo a chiedermi: “perché?”. Penso alle ultime parole del Crocifisso, secondo Marco e Matteo: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Perché una morte così crudele per tanti esseri umani, senza una carezza, senza una parola di consolazione, senza una lacrima delle persone care? E perché proprio i più indifesi, i più deboli: i vecchi, i malati, quelli più segnati dalla crudeltà della vita… tutti quelli che i Salmi pongono costantemente sotto le ali del JHWH, Colui che si prende cura di loro e li protegge…? Ancora una volta la Parola di Dio viene smentita dai fatti. Soprattutto in questo tempo, ho pensato spesso al romanzo dello scrittore franco-algerino Albert Camus – La peste – e all’incredulità del dottor Rieux di fronte alla sofferenza innocente; ho pensato all’indice rivolto verso il cielo: “Tu vedi, vedi, Lui tace!”. È vero che, spesso, Dio tace perché gli uomini – con la loro arroganza e il loro cinismo – lo hanno messo a tacere, ma non può essere solo questa la ragione del silenzio di Dio, soprattutto in certi momenti, quando ogni sicurezza umana è stata annientata da un virus invisibile. Ci sono tempi, nella vita – e sono questi – in cui appaiono con maggior evidenza le debolezze della natura umana, in cui ci rendiamo conto che esistono cose più importanti delle nostre consolazioni a buon mercato, dei nostri orticelli spirituali, del conoscere e affermare sé stessi. Siamo in un momento in cui abbiamo coscienza che le utopie della modernità non ci hanno portato oltre la solitudine e la morte… Ma proprio per questo – proprio perché la situazione si è fatta desolata, assurda e disperata – ci chiediamo: “perché?”. Abbiamo bisogno di una Presenza. Si sente bisogno di un amico nei giorni dell’impotenza più che in quelli dell’onnipotenza. Il potente di turno ha sempre “followers” intorno a sé, ma chi è disperato, chi è solo, non ha nessuno. Come nel momento dell’esilio di Israele a Babilonia, in questa disperata solitudine che attraversa le nostre città e le nostre case, siamo forse chiamati a ripensare e interrogarci sull’immagine che abbiamo di Dio e dell’uomo.
A ripensare l’immagine di Dio, anzitutto. Abbiamo sempre immaginato il Dio “onnipotente”, dispensatore di benessere e di prodigi e lo abbiamo cercato nei santuari, nei riti, nei ministri della chiesa… Oggi, in questo momento decisivo, siamo senza messa, senza ministri, senza chiese… e senza miracoli. Ecco allora la domanda: non siamo chiamati a riscoprire ciò che è a fondamento della fede, il mistero che è al di là del segno, ciò che è oltre? Non sto dicendo che possiamo vivere senza segni; dico solo che, diventati ministri tuttofare, corriamo il rischio di perdere l’essenziale, di perdere Colui senza il quale i santuari, i pellegrinaggi e preti sono tromboni che risuonano e cembali che tintinnano. Non siamo chiamati in questo momento a riscoprire la Parola, la “nostalgia” della Parola e dell’Eucaristia, in una fede autentica, lontana dagli orpelli, dai fronzoli di cui l’abbiamo rivestita? Non siamo chiamati a incontrare Dio nell’unico santuario degno di questo nome: l’uomo e, anzitutto, l’uomo crocifisso? Non esiste un mondo sacro e un mondo profano: ciò che è di Dio esiste solo nelle cose profane. Non a caso, nel momento in cui Gesù muore, il velo del tempio si squarcia e un pagano “vedendolo morire così” proclama Gesù “figlio di Dio”. Non è più il tempio il luogo di accesso a Dio (né quello di Gerusalemme, né quello dei tanti Garizim sparsi nel mondo) ma il Crocifisso, e i crocifissi: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero infermo e siete venuti a visitarmi, ero nudo e mi avete vestito…”.
Con l’immagine di Dio è necessario ripensare anche l’immagine dell’uomo e delle creature tutte. Mi ha colpito come, in questo tempo e in questo mondo così interconnesso da essere ormai quasi indistintamente votato alla vita o alla morte, sia stato detto che è fondamentale il recupero della “distanza” (almeno un metro, ci dicono!). Al momento dell’ingresso del virus nel nostro contesto italiano, stavo offrendo alla Pontificia università gregoriana un corso sul «Volto, epifania e mistero» e cercavo nella Bibbia i fondamenti di come si possa essere in comunione soltanto nel rispetto della distanza. È ovvio che la distanza non coincide con l’estraneità. Il libro dell’Esodo racconta che Dio scende verso il suo popolo, ma il popolo deve stare a distanza; anzi Mosè, il servitore per eccellenza, pur essendo il confidente di Dio, deve rimanere a distanza. La comunione non è simbiosi né affastellamento, ma relazione dialogica. La donna, nella Genesi, è presentata come una-che-sta-di-fronte all’uomo, sia perché l’essere umano è destinato a trovare il senso della “sua” vita solo di fronte a qualcuno che ci mette in questione, sia perché l’altro/a, nell’essere di fronte, è veramente un “tu” che non si può né catturare. La tentazione dell’uomo è sempre la stessa: inglobare l’Altro, invece di riconoscere che l’altro esiste prima di ogni mia iniziativa e ogni mio potere. Riconoscere la distanza, dunque, è più importante dell’empatia e del contatto immediato. Ha scritto la poetessa Candiani: “noi non sentiamo… il corpo dell’altro: non sentiamo quando sta tremando di fianco a noi, quando ha paura, quando si sente offeso e ferito. Forse il metro di distanza ce lo insegnerà?”. Vale anche per le altre creature. Purtroppo, diverse componenti che hanno strutturato la civiltà ebraico-cristiana, hanno interpretato il genesiaco “soggiogare” e “avere dominio su ogni essere vivente” in maniera fondamentalista e criminale. Oggi ci accorgiamo di essere al punto di non ritorno. Ne dovremo rendere conto a Dio e ai futuri figli degli uomini. Io spero che la diffusione di questo virus, a cui non è certamente estranea la situazione della nostra terra, ci porti tutti a un fecondo ripensamento.
È alle porte la settimana della passione-morte-risurrezione del Figlio dell’uomo, Colui che per noi cristiani incarna l’immagine autentica di Dio e l’immagine autentica dell’uomo. Gli eventi della croce ci dicono che la sconfitta, la solitudine e persino il peccato dell’uomo (sì, anche il peccato) appartengono ormai a Dio e vengono assunti nel mistero di salvezza. La notte di Pasqua, nel buio e nel deserto delle nostre chiese, qualcuno canterà: o felix culpa! Il grande sabato – come lo chiama la tradizione orientale – quello che precede la Pasqua, è un giorno di silenzio: il giorno della tomba silenziosa e deserta. Un’antica omelia sul grande sabato attribuita a Epifanio, recita: «Oggi sulla terra c’è un grande silenzio, grande silenzio e solitudine». È il silenzio di un’ulteriore kenosis, come canta ancora la liturgia bizantina al mattutino del sabato santo: «sei disceso per cercare Adamo, e non avendolo trovato sulla terra, o Signore, sei andato a cercarlo fino agli inferi!». E ancora, un’antica omelia siriaca: «Il creatore di Adamo ha visitato Adamo negli inferi; è sceso, l’ha chiamato: “Adamo dove sei?”, come gli aveva detto nel giardino (Gen 3,9). Quella stessa voce che lo aveva chiamato tra gli alberi, è discesa per chiamarlo tra i morti».
Il giorno del grande silenzio diventa, paradossalmente, nel mistero di Cristo, il giorno della Ricerca, dell’Incontro e dell’Amore. Ha scritto il testimone della chiesa confessante Dietrich Bonhoeffer: «in Gesù di Nazareth, Dio … vuole essere là, dove l’uomo non è più nulla… Dove è Gesù, c’è l’amore di Dio. Ma la documentazione comincia ad avere tutta la sua serietà, quando Gesù o l’amore di Dio… assume su di sé anche il destino che sovrasta ogni vita, la morte, cioè quando Gesù, che è l’amore di Dio, muore realmente; solo così l’uomo può diventare certo che l’amore di Dio lo accompagna e lo guida anche nella morte; e la morte di Gesù crocifisso come un delinquente mostra che l’amore divino trova la strada per arrivare fino alla morte del delinquente; e se Gesù muore sulla croce gridando: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), questo significa… che l’eterna volontà di amore di Dio non abbandona l’uomo nemmeno là dove egli dispera per l’abbandono di Dio”. Sì, Dio non ci abbandona neanche quando noi disperiamo della sua Presenza. È stato detto che ci sono bestemmie di uomini disperati che sono più accette a Dio di tante lodi di uomini benpensanti. Chi muore, in questi giorni, non ha probabilmente né la forza per maledire, né la coscienza e l’energia necessaria per pregare. È semplicemente solo. Questa solitudine però è abitata da Dio. Forse, è proprio a partire da questa solidarietà che potremo trovare la forza di nascere a vita nuova. È l’augurio che ci facciamo.
Santa Pasqua!
Massimo Grilli