RELAZIONE AI VISITATORI

Di seguito pubblichiamo il testo della relazione ai Visitatori di Camaldoli, tenutasi dal 7 al 9 luglio 2017, frutto della riflessione comune con le persone che ci frequentano, e sintetizzata da Firmino Bianchin.

  1. Seguendo l’indicazione della Lettera d’indizione del Capitolo Generale di Camaldoli 2017

La questione di fondo: il radicamento e la significanza.

Schede monastiche guida:

– B. Calati:      Riscoperta dei valori del Monachesimo, in Servitium 1978;

Il Monachesimo benedetttino; Conferenza a Treviso 1988;

Osservazioni storico-teologiche sulla vita Romualdi;

Il Primato dell’amore, ed. originale;

Esortazione su futuro programma di vita a S. Maria in Colle, 1998;

 

– P. T. Geijer,  Raccolta di lettere, 25 mo della comunità (2004)

– Costituzioni Camaldolesi;

– Concilio Vaticano II: in particolare:

– Lumen Gentium, Gaudium et Spes, Conferenze di Y. Congar,

– Lettera pastorale del card. Michele Pellegrino “Camminare insieme”.

Percorso riflessivo della comunità (cf scheda incontri di preparazione con il gruppo allargato)

 Fu P. Tarcisio Geijer prima e Benedetto Calati poi, con Emanuele Bargellini, allora Priore Generale, a suggerire la posizione giuridica più semplice, bilanciandola con l’affiliazione (o aggregazione alla Congregazione camaldolese dell’Ordine di S. Benedetto,[1] quale garanzia del cammino della comunità. Tale posizione non è estranea al patrimonio della tradizione romualdina e alle Costituzioni stesse. Si veda a proposito l’introduzione ai nn 1-4 (con la nota 1 del n 3).

E il cap primo: Natura spirituale e giuridica della Congregazione (nn 1-5).

Al n 3 si richiama come peculiarità di Camaldoli la “Triplice opportunità” (triplex bonum). “Unità della famiglia monastica” e dell’obiettivo spirituale circa la vita contemplativa, il lavoro, il primato della Parola e dell’Unico cibo pasquale per il cammino (cf. SC 10; LG 11).

Unica  vocazione monastica cristiana nella diversità dei doni.

La “peregrinatio pro Cristo” di Romualdo, pur restando fedele alla Tradizione di Benedetto è aperta al monachesimo missionario anglo-germanico di S. Bonifacio[2]. L’interpretazione di San Romualdo è stata siglata nell’enunciato profetico-sapienziale del Triplex Bonum (triplice opportunità) di S. Bruno Bonifacio, discepolo di Romualdo.

Vita ancorata nelle sorgive cristologiche, veicolate nella tradizione benedettina e aperta all’assillo “Contemplata aliis tradere” tipica degli itinera di Romualdo. “Siedi nella tua cella come nel Paradiso… e resta fedele alla geografia dei suoi itinera”[3].

La ricchezza profetica del “triplex bonum” va dunque pensata alla luce della storia della salvezza vissuta da Romualdo (Evangelium paganorum) e noi aggiungiamo, alla luce del Concilio Vat. II e dell’enciclica “Evangelii gaudium”[4].

Nel percorso di questi nostri quarant’anni, fatto di miscuglio di senso e non senso, di salvezza e non salvezza, di fatiche, gioie e speranze, cercando di seguire Gesù nell’unico imperativo del duplice comando (Mc 12,28-34), vorremmo sempre aderire all’Ora veniente, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità (Gv 4,23), partecipando al culto nuovo inaugurato da Gesù (Eb 10,5-10; Ps 40), per essere conformi a Lui (Rom 8,29).

Ribadiamo senza pretese, l’entusiasmo di praticare un monachesimo non di elite, ma saldamente radicato nella tradizione con zelo apostolico. Il carisma inscindibile del maschile-femminile è tipicamente gesuano (Lc 8,1-3), della scuola paolina (Rom 16,11-15; Fil 4,2ss) e giovannea (Gv 4,12-20), di Benedetto – Scolastica (Dialoghi, Gregorio Magno), di Bonifacio- Ildegarde, di Francesco – Chiara…

Conosciamo parzialmente il passato e il presente, ignoriamo il futuro, sappiamo però le promesse irreversibili del Signore: la storia sarà condotta alla sua meta. Nel segmento di storia attuale che ci è dato di vivere, e nonostante la nostra fragile testimonianza, ci sembra che il percorso monastico sia una grande ricchezza per la Chiesa di Treviso e per questo tempo post-moderno. La qualità della vita monastica dipende dal dinamismo dello Spirito, insito nella Parola che desideriamo ascoltare, capire, tradurre. Essa ci tiene in vita e in relazione costante col Signore e le persone. Il mistero eucaristico, poi, ci dona sapienza e qualità elementare del cammino di fede.

Riproponiamo con convinzione l’interesse intramontabile della forma monastica, insieme alla singolarità cristica. Essa rende speciale l’essenziale, massimo il minimo, eccezionale ciò che è più comune. Scioglie altresì ogni alibi della sua impraticabilità nella normalità di un discepolo di Gesù nel mondo e nella vita ecclesiale.

Essa esalta la felicità della fede più semplice e ordinaria; riconosce lo splendore dello Spirito nel primato della Parola (cf Lc 24); attinge vita dalla rivelazione compiutasi in Gesù nel sacramento della sua Agape, che ci riunisce in fraternità e annuncia il disegno profetico dell’unica famiglia umana universale.

Chiede di coltivare la prossimità con Dio e quella solidale con l’uomo, specialmente col più povero e ferito. Tutto tiene insieme nella somma sapienza del rispetto dei primati che vengono da Dio[5] .

Ribadiamo il Primato delle Scritture come dono per il cammino pasquale e per la riscrittura continua della nostra vita, affinchè Cristo sia formato in noi. Sottolineiamo l’intuizione di P. Tarcisio Geijer: un monachesimo che fiorisca nella chiesa particolare; e di P. Benedetto Calati, che con sapienza creativa ha guidato e concretizzato il progetto accogliendolo nel cammino della riforma camaldolese postconciliare.

Per ritornare alle fonti e divenire noi stessi fonte, è necessario vivere custoditi dalla “scuola del servizio del Signore”. Tra i molti richiami possibili vorremo avvalorare la nostra convinzione con un testo della LG 7 (299-303): “Cristo l’immagine a cui assomigliare nel nostro pellegrinaggio, per una diaconia che rinnova. La Patria infatti è davanti con il suo di più insondabile. L’accoglienza incessante di Cristo è principio sorgivo di relazione, che ci riempirà della sua pienezza, servendosi anche delle potenzialità di ciascuno di noi” (cf Ef 1,22-23).

Il Verbo si è fatto carne, non legge né idea, e incontriamo la sua azione nella vita ordinaria, fedeli alle quattro assiduità (Atti 2,42-47), nella scuola della Tradizione del santo Padre Romualdo. Tutto questo consente un itinerario senza separazioni, finalizzato ad un umanesimo nuovo: un monachesimo semplice, non elitario, radicato nella Tradizione e nell’ordinarietà.

L’incarnazione di Gesù incontra ogni esistenza, compie la Torà e i profeti, offre una sacralità profonda alle persone in relazione; così impariamo e costruiamo giorno dopo giorno il dialogo e la solidarietà, troviamo preziose indicazioni per i nostri percorsi, a volte fatti di buio. Il Primato dell’Amore di p. Benedetto è davvero un testo profetico, perché pone in stretta correlazione le singole persone e la comunità con la Chiesa: “Come la chiesa, anche la vita monastica si presenta come mistero che riflette la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.

È un’affermazione che ripropone l’attenzione al Dio che progetta la vita dei singoli e della comunità, finché il suo disegno si compirà nell’universalità della vicenda umana e cosmica. L’obbedienza è prima di tutto obbedienza della fede: ascoltare e mettere in pratica la Parola. Il mondo, l’umanità sono i luoghi amati, abitati dal Figlio e dal suo Spirito, che fa rinascere dall’alto (Gv 3,5-8). Se Gesù è l’icona del Padre e si identifica con i poveri, ci chiede qualcosa di più che farsi prossimo. Da questa reciprocità si ripropone di pensare e vivere legami con le persone nella loro realtà di “mistero”, aprendoci a processi aderenti alla realtà. La problematicità di un riconoscimento reale della nostra piccola realtà non impedisce una disseminazione costruttiva, sostenuti dalla sapienza normativa dei primati che condividiamo.

La sfida oggi è la testimonianza. Il monachesimo è anche un processo formidabile di umanizzazione che ci chiede un senso di identità profonda, legata al radicamento nella Tradizione. Tutto questo spinge oltre a un semplice bisogno di visibilità e di riconoscimento.

Voi considerate la vostra comunità in mezzo al mondo e alla Chiesa come sono, non in astratto ma nella vostra situazione concreta dove le ricchezze spirituali, le sofferenze, l’apparente declino di tanti valori, l’apparire discreto della ricchezza che sanno sviluppare i poveri, – tutto questo è il tessuto ordinario della vostra vita. Papa Francesco invita ad andare alle periferie: li state voi, mi sembra.  
… Ciò che siete è niente fiammeggiante, niente barocco, tutto quotidiano e semplice come è la vita vera, nel trovarsi bene nel vivere insieme, al di là o dentro la lotta dell’amore fraterno” (lettera di P. G. Lafont).

Il primato impegnativo della ricerca di Dio aperto agli altri porta al fecondo scambio in un dare-ricevere, senza contabilità. Paolo VI, nell’Evangelii Nuntiandi, al n 41 sottolineava che l’uomo moderno ascolta più volentieri i testimoni che i maestri.

I tratti paradigmatici della Triplice opportunità e della Piccola Regola sono – in questo senso – un capolavoro, perché insegnano come rapportarci alla Parola, alla Liturgia, all’accoglienza, all’accompagnamento e al dialogo anche nella diversità delle esperienze. Obbligano a un confronto dinamico e alla permeabilità con ciò che è decisivo per la vita, favorendo un’irradiazione semplice e feriale. Pur non chiedendo nulla, restando persone riconoscenti nella chiesa, cercando sempre la fedeltà ai primati indicati, vorremmo perseverare nel carisma della vita monastica, grati ai maestri che ci hanno custodito e che ci custodiscono.

Viviamo in obbedienza a una duplice fedeltà: alla chiesa locale (diocesi) e alla Congregazione camaldolese. La comunità cerca di accogliere tutto, con tutti, e per tutti prega, senza la pretesa di dare ciò che non possiede (cf At 3,1-10) o risposte semplicistiche e consolatorie a vicende e drammi umani che si accostano alla nostra vita quotidiana. L’impegno è quello di lasciar trasparire l’essenzialità del cammino verso l’incontro con la Parola, perché quest’ultima compia il suo corso nella vita di ognuno (cf DV 8).

Parafrasiamo Padre Davide Maria Turoldo nel suo appello: Almeno i monaci, le comunità monastiche ritornino ad essere spazi della creatività e della fantasia; fuggano le liturgie brutte, cerchino insieme vie nuova, cantino i Salmi di un popolo in cammino verso il Regno che viene. Non siano pietre sepolcrali, ma storia di liberazione. Come Dio udiva il gemito di tutti i poveri della terra, si impegnino nella liberazione dai nuovi faraoni. Tutto questo per dire che dobbiamo riprendere ogni cosa da capo e fare un programma e procedere con ordine e fedeltà. Ritorniamo a essere oasi di creatività e di ricerca del nuovo, in continuità dell’antico, dopo aver invocato lo Spirito. I monasteri siano come una Pentecoste vivente, dove i figli e le figlie profetizzano. Occorre allargare gli spazi per la fantasia e coltivare la sensibilità per Dio e per l’uomo. Componiamo liturgie che traducono il Mistero di Dio all’uomo d’oggi.[6]

La vita della comunità

Viviamo una laboriosa ricerca, mai conclusa, nell’ordinarietà e straordinarietà ad un tempo. Nella preghiera, nello studio, nel lavoro, nella vita di famiglia, nell’accoglienza e nelle relazioni. Camminiamo nelle fatiche e speranze in noi e intorno a noi, sforzandoci di rispettare il mistero di ogni persona. La vita di comunità è faticosa, esaltante e necessaria. Si impara a vedere tutto, lasciar perdere molto, non occupare lo spazio dell’Unico Maestro. Celebriamo i nostri impegni nei Sacramenti, festa di Dio per l’uomo, nella liturgia che è gratuità e impegno allo stesso tempo, capace di orientare scelte, decisioni, lavoro quotidiano. Ci viene detto che siamo “punti di riferimento”. E di fronte a questo comprendiamo la responsabilità di essere fedeli ai primati essenziali della vita monastica, e quella reciprocità in cui deve trasparire ciò che è vitale, senza perderci in mille rivoli.

Un grazie a Camaldoli e alla Diocesi che in modi diversi ci accolgono e ci donano la possibilità di questa vita, radicati alla Tradizione millenaria da un lato, a un territorio locale nel quale viviamo la condivisione con la nostra piccola comunità.

note

[1] Vedi Statuto
[2] AA.VV. La spiritualità del medioevo, (B. Calati, cap V, Peregrinazione monastica, Spiritualità anglo-germanica), Storia della spiritualità (vol. 4), Borla Roma, pp 70-79.
[3] Idem, p 2-3.
[4] Cf. G. Lafont, Critica della vita religiosa (originale Critique de la vie religieuse, in Cahier de vie Religieuse, (2005/130, pp 55-75).
[5] (P.A. Sequeri, un monastero per la città”, Atti del convegno per i 650 anni dell’Abbazia di Viboldone, ed.  Vita e pensiero, 1999). Cf anche: Sensibili allo Spirito, Glossa Milano, 2001; La qualità spirituale, Piemme, C. Monferrato, 2001.
[6] Cf. AA.VV. Ancora tempo di monaci? (D.M. Turoldo, Appello ai monaci, pp 250 – 252).

Impara a conoscere la Parola che ti “svela” il cuore di Dio. (p. B. Calati)

(Conferenza tenuta a Treviso, 1988)

IL MONACHESIMO BENEDETTINO

Cos’è il monachesimo? Come si colloca nella chiesa?

Mi pare opportuno iniziare questa nostra conversazione sul monachesimo di Benedetto con quiesta premessa metodologica.

Il monachesimo si aggancia a quanto c’è di più vitale nell’uomo e si interroga sul suo rapporto con Dio, sul sensod ella vita nei suoi valori supremi. Il monachesimo, perciò, è comune ad ognio religione: esso fa parte del cammino sapienziale dell’uomo che cerca Dio.

Con l’apparire del cristianesimo il monachesimo intuisce nella figura di Gesù, nel suo mistero (parole, morte e resurrezione, dono dello Spirito) il modello nuovo ed essenziale a queso bisogno nativo dell’uomo. Gesù si offre come “colui che cerca Dio”, ovvero come “risposta vivente” al quesito che, se l’uomo cerca Dio, lo fa solo perché Dio per primpo si è posto alla ricerca dell’uomo. Gesù si pone come lo svelamento, il rivelatore del Gratuito, che è il dono del Padre pèer tutti gli uomini, che gratuitamente, nonostante le infedeltà dell’uomo, si offre come dono, come Amore.

Gesù è il “diletto Amato”, che si fa carne, convive con noi, muore per noi, ma il terzo giorno risorge, donando il suo Spirito a tutti coloro che si lasciano afferrare da suo Amore. Il mistero pasquale ci svela la Koinonia di Dio, koinonia – comunione che è Dio, che si apre all’uomo per fare di tutti i figli adottivi di Dio.

Il monachesimo come ricerca sapienziale di dio riceve il suo battesimo in Cristo.

Esso scorge nella proposta di Gesù il modello del radicalismo per il Regno. Si allarga l’invito di Gesù a seguire Lui; tale invito non è solo per gli apostoli, ma è per tutti,che in varietà di doni dello Spirito, vogliono giungere a salvezza.. Nell’ottica pasquale (Risurrezione e dono dello Spirito) i credenti scoprono guidati dalla Parola di Dio, dalla Scrittura e da Primo e Nuovo Testamento che il Regno è ormai inaugurato, che il “tempo” già ha avuto il suo compimento, che la storia si può vivere con un senso profetico, aperto cioè ai “cieli nuovi e terra nuova” in cui inabita la giustizia.

Ma l’incontro del monachesimo col cristianesimo è sì un Battesimo in Gesù.

L’incontro con Gesù pone al monachesimo una richiesta di conversione. Non si accede a Gesù se non ci si converte, dall’eros religioso all’agape, dall’ascesi autogratificante all’amore della benevolenza del Padre, dallo sforzo e dalla fiducia nei propri meriti all’abbandono al Padre in Gesù. In fondo è nel monachesimo che nasce l’eresia pelagiana. Il monachesimo ha anche con sé questa realtà pesante dell’ascesi autogratificante. A che la grazia?

Ecco la necessità della conversione. Ho parlato del Battesimo del monachesimo in Gesù,esso si pone perciò come carisma che nasce dall’esperienza viva del popolo di Dio in cammino per il Regno. Il monachesimo si riconosce nella sequela radicale di Gesù, nella sequela della sua offerta di essere Lui ormai il “tempo” previsto della benevolenza di Dio per la salvezza degli uomini. Il monachesimo cristiano pur avendo profondi addentellati religiosi pre-cristiani, filosofici, a questo punto acquista una nuova coscienza della propria identità. Non si ricorderà più Filone o Plotino o altri maestri della sapienza, ma ci si richiama a Gesù (la grande tradizione monastica, pur conscia di questa sua matrice pre-cristiana, inizia con Gesù). Il monachesimo cristiano scopre nella Bibbia il grande tracciato del cammino sapienziale, la Sacra Scrittura letta sotto la guida vitale di Gesù, della sua vita, del suo insegnamento, del suo mistero pasquale. Il monachesimo si ritroverà nella prima comunità come è vissuta a Gerusalemme secondo quanto gli Atti degli Apostoli ci offrono il giorno della Pentecoste: “essi erano assidui nell’insegnamento degli Apostoli, alle riunioni comuni, alla frazione del ap ne, alla preghiera”.

“E tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano tutto in comune e vendevano i loro possessi e i loro beni e ne distribuivano il prezzo fra tutti secondo il bisogno di ciascuno” (Atti, 2,42,ss).

“E quando ebbero pregato furono tutti ripieni di Spirito Santo sicché annunziavano con franchezza la Parola di Dio. E la moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era fra loro comune”. (Atti4,31ss).

Il monachesimo cristiano sembra che ignori precedenti e inizia con questa pagina.

E’ chiaro che la proposta monastica giunge alla Chiesa come carisma sollecitante il suo radicalismo a “niente anteporre all’amore di Cristo”. E’questo il detto centrale della regola di S. Benedetto.

Con questo sguardo si legge il Vangelo, si scopre come dono dello Spirito il celibato per il Regno, l’amore totalizzante per Gesù e per la sua proposta. Questo sguardo di amore totalizzante spiegherà ogni atteggiamento esistenziale nuovo con cui si guarderanno le cose, regolando il cammino della vita, quanto cioè nel Vangelo si ritrova sull’uso dei beni e della propria vita (quanto più tardi sarà compreso con la povertà e l’obbedienza).

Quando la chiesa, dopo l’immediata pace costantiniana, gustando la pace dopo la persecuzione, ma insieme anche i favori dell’imperatore convertito a Cristo, favori che si rivelano carichi di tensione e di tentazione per la sua profezia, il monachesimo si rivela quale carisma della libertà cristiana, contro il potere mondano, contro il potere che poteva venire dal Tempo e ancora contro la tentazione dell’ascesi auto gratificante per il primato indiscusso dell’Amore.

In questo quadro compare Benedetto e la sua proposta monastica nel sesto secolo.

 

  1. – CRISTIANESIMO ED ECCLESIALITA’ DELLA PROPOSTA IN SAN BENEDETTO

 

Non si può fare il discorso su S. Benedetto (nascita nel 480) senza accennare a Gregorio Magno, che vive il suo pontificato alla fine del sesto secolo, la generazione quasi immediata a Benedetto, di cui Gregorio nei suoi dialoghi (599) ci tesse la “leggenda” ed è l’unica narrazione dell’uomo di Dio Benedetto. Questi “dialoghi” di Gregorio sono una storia mitica poetica intorno ai monaci che vivono vicino Roma nel sesto secolo, la Sabina, il Sannio ecc (cfr. Patrologia latina n. 94, Libro II, Jaka Book –“La Regola”).

E’ una storia che Gregorio concepisce sul tracciato biblico, Benedetto è un uomo di Dio come Elia, Eliseo, come i profeti e gli apostoli. E’ una storia che è insieme riflessione teologico-spirituale su Benedetto e sul suo carisma ecclesiale.

 

Nella narrazione Dialoghi sulla vita di Benedetto, Gregorio Magno vuole dimostrare che anche l’occidente ha il suo monachesimo. Non occorre andare in Egitto, la patria naturale del monachesimo primevo, ma Roma ha il suo monachesimo. Roma, proprio al declino del suo potere, propone la comunità dei poveri di Dio, dei servi di Cristo come modello della nuova chiesa che dovrà sorgere al declino dell’impero.

Nella proposta monastica di Benedetto l’evento pasquale è decisivo.

La vita di S. Benedetto, nato a Norcia, è segnata da una fuga da Roma, ove si era recato per motivo di studio. Questa uga, nell’ottica di Gregorio Magno, ripropone l’uscita di Abramo dalla propria patria indicatogli da Dio stesso. Benedetto fugge nella solitudine di Subiaco a 60 chilometri da Roma, vive nello speco educato da Dio, ignoto a tutti. Solo un monaco di Roma gli portava del cibo, che si toglieva dalla sua parca mensa-

Ma il giorno di Pasqua (dopo tre anni trascorsi nello speco), Dio volle mostrare in esempio agli uomini l avita di Benedetto, perché la lampada doveva essere posta sul candelabro per far luce a tutti quelli che sono nella casa del Signore.

 

“Il Signore si degnò dunque di apparire a un tale prete (notiamo la nota ecclesiale del monachesimo di Benedetto) che abitava a qualche distanza nel momento in cui si era preparato il desinare nella festa di Pasqua (si noti che il Signore gli appare mentre stava preparandosi da mangiare) e gli disse : “ Tu ti sei preparato buone cose e il mio servo nel deserto soffre la fame”. Subito quegli si alzò e in quella stesa solennità di Pasqua, raccolti gli alimenti che aveva preparati per sé si diresse al luogo indicato, cercando l’uomo di Dio per i dirupi dei monti, nelle insenature delle valli, nei cavi delle grotte e lo trovò nascosto nello speco. Fatta orazione Benedetto e il sacerdote sedettero e conversarono delle dolci cose della vita eterna. Poi il prete che era venuto gli disse: “alzati, prendiamo cibo, perché oggi è Pasqua”. “Oh si – ­rispose Benedetto –­ oggi è proprio Pasqua per me perché ho avuto la fortuna di vedere te”.

Così lontano dagli uomini il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua. Riprese il sacerdote: “Io sono stato inviato qui proprio per questo, per cibarci insieme, da buoni fratelli di questi doni che l’onnipotenza di Dio ci ha messo davanti” Finita la refezione il sacerdote fece ritorno alla sua chiesa”.

Circa lo stesso tempo, anche alcuni pastori scoprirono Benedetto nascosto dentro lo speco, e riconosciutolo come servo di Dio, si diedero a santa vita. Perciò la fama di lui si sparse in tutti i paesi vicini e già fin da allora molti cominciarono a frequentarlo.

Purificato inoltre da grave tentazione ad imitazione di Gesù che prima della sua vita pubblica combatte il satana nel deserto, molti cominciavano a lasciare il mondo ed accorrevano sotto la sua disciplina.

La popolarità rivive il mistero della chiesa attraverso l’esempio dei Santi ed è importante che Gregorio Magno riproponga questa esperienza pasquale attraverso la vita dio Benedetto.

Alcuni giovani della vecchia Roma si posero alla scuola di Benedetto, si fa il nome di Mauro e di Placido. Nasce la comunità, il cenobio “con l’aiuto dell’Onnipotente Signore Gesù Cristo, vi potè costruire nella valle dell’Aniene, dodici piccoli monasteri, in ciascuno dei quali costituì un abate e assegnò dei monaci, con sé ne tenne alcuni pochi che gli parve più conveniente formare sotto i suoi occhi”. (Libro2° — Dialoghi, cap. 3).

Vi domina come fatto centrale l’evento di Pasqua, che fa di Benedetto un uomo apostolico. Come gli apostoli egli fonda la comunità dei credenti – i monaci – alla sequela di Gesù. Simbolico il numero “dodici” che ci richiamerà la vocazione dei dodici apostoli da parte di Gesù. Quel mistero dunque della sequela si perpetua nella grazia monastica.

E’ importante dunque l’attenzione al Mistero Pasquale.

Il monachesimo di Benedetto nasce anch’esso in questa “Nuova Pentecoste” e si perpetua nell’esperienza di Benedetto “la piccola Pentecoste” degli Atti – cap. 10,44 – (lo Spirito discende sopra i pagani alla predicazione di Pietro) e continua nell’esperienza del monachesimo. Gli Atti o le gesta degli apostoli della chiesa primeva dunque non sono concluse, ma rimangono come momento dinamico.

Così Benedetto, sollecitato a dare di nuovo la vita ad un fanciullo morto, figlio di un povero contadino, si ritrae quasi inorridito. “Queste cose non sono nostre, sono degli Apostoli”. Ma dietro insistenza dei discepoli e commosso dal pianto del pover’uomo si pone in preghiera e ottiene il miracolo. Dunque anche Benedetto è un apostolo come Pietro e Paolo.

Importante per questo è il primo libro dei Dialoghi ( la vita di Benedetto è raccontata nel II); si parla di un altro uomo di Dio, — Onorato – è il santo monaco con cui si inizia questa narrazione; esso è istruito direttamente dallo Spirito Santo come lo furono gli apostoli il giorno della Pentecoste.

 

Sono da sottolineare queste avvertenze cristologiche, ecclesiologiche e pneumatologiche. La presenza dello Spirito Santo e di Cristo forma la nuova storia. Il Vangelo continua, le gesta degli Apostoli continuano nella vita degli uomini di Dio e qiesti sono posti come maestri per il popolo di Dio.

Il mistero pasquale dunque è alla base di questa offerta che il monachesimo romano del sesto secolo fa alla chiesa. Emerge la sua essenzialità cristocentrica, pneumatocentrica, ecclesiocentrica. Esso si pone come eco della pagina pasquale degli Atti degli Apostoli. E’ un prete che va a portare l’annuncio di Pasqua a Benedetto. E’ un annuncio quasi liturgico: “Oggi è Pasqua”.

Quel testo agiografico è una mistagogia, è una celebrazione del mistero, ed è importante che la celebrazione si faccia mangiando, consumando il cibo nel giorno di Pasqua.

  1. – DEMITIZZAZIONE DEL DESERTO GEOGRAFICO E INTERIORITA’

L’offerta decisiva del monachesimo apostolico quale è quello di Benedetto, è una demitizzazione del deserto geografico a vantaggio della interiorizzazione di esso. Questo è importante perché la spiritualità moderna, in un certo modo, nasce in questo contesto.

Essere monaci significava sinora fuggire nel deserto della Tebaide o della Siria.

Oggi nella Chiesa di Roma, nella nuova comunità di fede che nasce dalla distruzione della vecchia Roma, si può vivere da monaci nelle campagne, anche nelle stesse città, perché il monaco Benedetto, nella esperienza dottrinale di Gregorio, inaugura un nuovo modo di sentire il deserto ed è “abitare seco stesso sotto gli occhi di Dio”.  Il tramonto delle “strutture di potere” anche spirituale, va a vantaggio di una maturazione dell’esperienza cristiana. Il deserto può avere sì un significato, ma solo funzionale, pedagogico; nell’ottica cristiana ciò che giustifica è solo l’amore.

Benedetto e Gregorio ci offrono la cella del cuore già prima di S. Caterina da Siena, come anelito nuovo del deserto è il proprio intimo del cuore.

Abbiamo qui la cella del cuore, la coscienza, l’animus in cui ormai si stipulano le nozze del Verbo di cui il deserto biblico (questa è una interpretazione del vero senso del deserto, il nuovo esodo dei profeti, interiorizzazione cioè dell’esperienza personale con io Dio della conversione) nel continuo simbolo è il richiamo vitale. E’ un superamento delle strutture sacrali.

Gregorio Magno alla scuola della Bibbia e di Agostino, e con esso Benedetto, sono alla base della spiritualità a cui con fatica noi ci si sta aprendo; ed è una dimensione l”laica” della spiritualità.

Che significa “abitare seco stesso” nella spiegazione che dà Gregorio? Si dice, di Benedetto, che “abitò solo con se stesso sotto gli occhi del Supremo spettatore”.  Spiega Gregorio: “il venerabile Benedetto in quella solitudine abitò seco stesso perché tenne in custodia se stesso nella clausura del pensiero” (claustrum cogitationis). Dunque il chiostro non è solo materiale, ma anche il chiostro della mente nella clausura del pensiero.

Dal “claustrum” geografico tipico della tradizione monacale si passa al “claustrum cogitationis” interiorizzato; è l’operazione laica del problema.

Continua il testo: “mentre ogni volta che l’ardore della contemplazione lo rapiva in alto, egli lasciava se stesso al di sotto di sé”; spiega ulteriormente Gregorio: “quest’uomo venerabile abitò seco stesso, sentendosi sempre sotto lo sguardo del Creatore, sempre scrutandosi, non divagò fuori da se stesso l’occhio della sua anima”.

E’ il primo problema che Gregorio affaccia nella vita di Benedetto e perciò di importanza fondamentale.

  1. – RECUPERO DEL “TEMPO” E DELLA “STORIA”

PREGHIERA E LAVORO SONO LITURGIA UNICA.

Se Benedetto demitizza il deserto, è soprattutto a vantaggio di un recupero della nozione di “tempo” e della “storia” e della presenza del credente-monaco in esso. Il monaco del deserto (che fuggiva nel deserto) perdeva il senso del tempo e della storia. Egli non lavorava. Per evitare l’ozio, il monaco tesseva le tende di giorno per disfarle durante la notte.

Benedetto non capisce questo; bisogna lavorare veramente; c’è da dissodare il terreno, si dissoda; c’è da prosciugare la palude, si prosciuga; ci sono da copiare i codici, si copiano; c’è da studiare, si studia veramente. Il monaco corre il rischio di auto gratificarsi, in una logica che non è quella pasquale.

Gesù entra nella storia e l’abbraccia nella sua realtà, si pone come “germe” di vita nuova nella proposta di amore. Il monaco del deserto assolutizza la theoria, la contemplazione contro l’impegno della carità.

Il monaco di Benedetto dovrà perciò pregare e lavorare. Preghiera e lavoro che nell’ottica della tradizione primeva benedettina ripropongono la formula cristologica di Calcedonia, di Cristo, vero dio e vero uomo. E’ una confessione di fede. È una liturgia.

Con un programma di vero lavoro (sei ore) il monaco di Benedetto solidarizza col Cristo, che appare come il figlio del falegname. Le prescrizioni sulla regola sono chiare e precise: “L’ozio è nemico dell’anima”. Inizia così il capitolo della Regola di Benedetto che normalizza il lavoro. Dunque, è vero che il lavoro è amico dell’uomo. Benedetto vuole che il monaco risponda anche con i suoi talenti ai vari impegni di lavoro. La tradizione artistica della vita benedettina è ben conosciuta e non occorre spendere parole (Regola cap. 57).

Il lavoro è la confessione all’umanità di Cristo.   I dogmi delle generazioni cristiane, non venivano formulati perché rimanessero confessioni di fede astratta; essi avevano lì incidenza nella vita, venivano celebrati nella liturgia, ma la liturgia aveva un riscontro nella vita attraverso l’impegno della carità. Quindi il monaco lavorava confessando l’umanità di Cristo, impegnandosi a tempo pieno come Cristo si era impegnato nella storia.

La preghiera risponde come confessione al Cristo Dio.  La preghiera della comunità monastica è caratterizzata dalla liturgia delle ore; significa che nel tempo si è verificato il disegno di Dio. Il tempo è stato riscattato dalla vanità. Ecco l’importanza della liturgia delle ore, recuperare la storia della salvezza, lodare Dio nel tempo, ringraziare Dio in questo tempo, essere compenetrati in questo tempo dalla conversione per ritornare a Dio. La preghiera liturgica è preghiera pasquale per eccellenza. Il monaco recupera il tempo biblico, la “settimana della creazione”, ma anche la “settimana della redenzione”, aperta all’escatologia. La simbiosi o la sinfonia tra preghiera e lavoro nell’ottica pasquale: sono essi gli elementi di questa spiritualità oggettiva e storica.

E’ felice il monachesimo quando si è tenuto fedele a quest’ottica; però nel tempo sono prevalse le tentazioni spiritualistiche.

La vita di Benedetto ci ha trasmesso un aforisma sull’azione liberante del lavoro. SI legge: “Un povero goto lavorava e disboscava il terreno intorno al lago di Nerone nella vale di Subiaco, e gli esce la falce dal manico e scivola nell’acqua. Il povero goto propone il suo caso a Benedetto, che avvicinato al lago il manico della falce, ecco che questa riemerge dall’acqua e torna al suo posto”.

Ecco il miracolo. Ciò che è importante è il significato. Benedetto dà al goto lo strumento del suo lavoro con la benedizione: “lavora e stai contento”.

 La fede dei barbari, dei nuovi popoli ritrova la sua esperienza della fede nella comunità monastica più che in quella gerarchica, perché la prima ha l’elemento contadino e la tradizione barbara è tradizione contadina. La fede veniva trasmessa anche attraverso questo supporto culturale. La tradizione cittadina sedentaria era meno adatta ai nuovi popoli. Ecco l’incontro tra barbari e monaci, spontaneo, naturale.

Che la preghiera dia gioia è scontato, ma che il lavoro possa comunicare gioia può essere discusso. Per Benedetto, il lavoro nutre lo stato d’animo di serenità e di pace.

La preghiera, secondo la testimonianza di Benedetto, conforme alla tradizione dei padri, era frutto della lectio costante delle Sacre Scritture. Come gli Apostoli il giorno di Pasqua ricevono il carisma dell’interpretazione e il dono della comprensione delle Scritture, così è per Benedetto e per la sua comunità monastica, che nasce il giorno di Pasqua. La comunità ha un ruolo profetico.

Benedetto, insieme a Gregorio, lasceranno alla chiesa questo grande patrimonio della lectio biblica, che è il criterio concreto della spiritualità monastica, come sarà poi della chiesa. Lectio – Meditatio – Oratio – Contemplatio – Evangelizatio è la scala che conduce al Paradiso, che si dischiude a noi nell’intelligenza della Parola.

Questi enunciati di lettura-meditazione non stanno ad esprimere solo un proceso di intelligenza sempre più profonda della Parola, un’assimilazione come di nutrimenti, ma anche un processo più vitale per quanto riguarda la reinterpretazione delle Sacre Scritture nei nuovi contesti storici in cui la comunità di Benedetto sarà poi condotta.

La meditatio, per Gregorio Magno, – che commenta al suo popolo il nuovo Tempio dell’era messianica di Ezechiele, – non è solo argomento del “culto spirituale” a cui noi tutti dobbiamo aprirci (meditatio = interiorizzazione del tema) ma quel “nuovo Tempio” sono precisamente i nuovi popoli, che subentrano nella storia al declino dell’impero di Roma.

C’è un tentativo di rilettura della Parola di Dio in una situazione storica nuova.

Il Commentario biblico che San Beda offre alla chiesa inglese (monaco della prima generazione cristiana inglese) offre degli esempi belli nel commento del “tempio di Salomone”; ebbene, “il tempio nuovo è la Chiesa corpo di Cristo, le colonne sono i predicatori del Vangelo che Papa Gregorio nei nostri giorni ha inviato in Inghilterra”.

Si noti la preoccupazione esistenziale. Dalla Chiesa madre di Roma nasce la chiesa locale in Inghilterra. Si inserisce come continuazione degli Atti degli Apostoli vissuta in Inghilterra. La preghiera monastica acquista un carattere storico salvifico ed è preghiera ecclesiale. Quando si dice che si prega con la Liturgia, si prega con la Chiesa, nel suo travaglio, nelle gioie, inseriti nel cammino ecclesiale.

La preghiera è dunque attualizzazione del mistero della salvezza; emerge la lode, il ringraziamento, che sono atteggiamenti tipici della preghiera biblica espressa nei Salmi.

Ecco il grande precetto di S. Benedetto: “Nulla, assolutamente nulla si anteponga all’opus Dei” –  Ergo nhiil Operi Dei praeponatur” – (R.B. cap 72).

La comunità monastica secondo Benedetto non è comunità di oranti! Il monaco dovrà lavorare a uguale titolo con cui prega. Ecco perché l’insegnamento di S. Benedetto sulla oratio privata è così sobrio (S.R. cap. XX). Deve essere pura e breve perché è dono dello Spirito, a meno che non sia prolungata come dono speciale. Non esiste nella Regola l’ombra di voler fare dei monaci una “corporazione di oranti” a cui demandare “ex officio” l’impegno della preghiera. Questo verrà solo più tardi.

Nell’epoca carolingia, si guarda al monachesimo come ad una forza religiosa. Mentre il monaco prega, i “signori del tempo” manovrano la storia. Ma in realtà si taglia la voce profetica alla chiesa. Si zittiscono i monaci con larghe donazioni e non ci sarà più il lavoro. Ma questo non è monachesimo di S. Benedetto: Tante ambiguità del cammino storico della chiesa si compiono su questo terreno. Si può deviare dall’ideale cristiano sia col radicalismo materialista sia con quello spiritualista.

  1. – L’ASCESI SI RISOLVE NELLA CARITA’ – IL PRIMATO DELL’AMORE.

Benedetto che “nasce a Pasqua, interiorizzando il deserto e recuperando il tempo con Ora et labora”, inaugura un’ascesi delle verità cristiane che culminano nell’amore-

Mentre il “deserto” nella sua accezione biografica si prestava all’autogratificazione, Benedetto, recuperando il tempo e la storia con la preghiera, insieme al lavoro ( nel senso neo-testamentario) recupera l’ascesi tipica della sequela di Gesù. Significativo l’incontro di Benedetto con la sorella Scolastica: “Quando Benedetto andò a trovare per l’ultima volta la sorella Scolastica, essa prevedeva che stava per morire. Giunta la sera Benedetto voleva ritornare al monastero perché aveva scritto la regola dove si dice che il monaco, ad una certa ora, deve rientrare in monastero. Scolastica allora si mise a pregare il Signore e subito si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che, né il venerabile Benedetto, né i monaci che erano con lui poterono mettere piedi fuori dell’abitazione. Benedetto rammaricato dice alla sorella: cosa hai fatto? E lei risponde: “ho pregato te e non mi hai ascoltato, ho pregato il Signore e mi ha ascoltato. Adesso esci pure se puoi.” Pur non volendo, Benedetto dovette stare con i suoi discepoli a pregare e lodare Dio con la sorella”.

 E’ importante il commento che fa Gregorio: “Scolastica ottenne di più perché amò di più”.  E’ il primato dell’amore (Dialoghi. Cap. XXXIII). E’ tipico che il primato dell’amore venga presentato da Scolastica; essa rimane un modello esistenziale per tutti i tempi, il primato dell’amore su ogni regola. La regola stessa di Benedetto si conclude con una netta demitizzazione della regola quando dice: “Questa regola serve per chi comincia, ma per chi vuole camminare segua l’Evangelo”.

 La regola di S. Benedetto non conosce la parola “contemplazione”, ma quella della “carità”. Mentre la prima aveva con sé tutta l’ambiguità della filosofia neoplatonica, la carità invece esprime quanto Gesù ci ha insegnato: “il grande e unico precetto che è l’amore”.

L’impegno comunitario tipico di Benedetto si pone come “culto spirituale” della comunità: la vita dell’amore fraterno. E’ quanto ci insegna i, cap. 72 della Regola di S. Benedetto.

  1. LANCIO MISSIONARIO

Il monaco educato alla preghiera e al lavoro come risposta esistenziale al mistero cristiano, quale è espresso nel momento primigenio (Gesù morto e risorto), trova anche il carisma di annuncio della Parola di Dio.

Benedetto evangelizza la popolazione intorno a Cassino; questa predicazione è espressione dell’impegno battesimale del sacerdozio regale e va anche al di là della semplice investitura gerarchica.

Sarebbe interessante leggere il primo libro dei Dialoghi, nel quale appare un certo contrasto tra il vescovo di Roma e un monaco che predicava senza il suo consenso. Il monaco aveva avuto l’ispirazione dallo Spirito Santo. Il Papa voleva impedire la predicazione del monaco e questi obbedì. Ma l’angelo, nella notte, disse al Papa: non ti interessare di questo, ho dato io il permesso al monaco di predicare, lascialo predicare. Tu interessati delle cose della tua chiesa.

“Ivi giunto l’uomo di Dio fece in pezzi l’idolo, rovesciò l’ara, divelse i boschetti consacrati

ai demoni. La gente poi che abitava lì intorno con assidua predicazione egli andava chiamando alla fede”. (dai Dialoghi, cap. 8).

 Non si può parlare né pensare al problema dell’evangelizzazione del nostro occidente senza tenere in debito conto la presenza del monachesimo benedettino.

L’evangelizzazione condotta dai monaci di Benedetto si qualifica per un’ispirazione biblica. Gregorio, monaco lui stesso,invia i monaci in Inghilterra. La grande preoccupazione di questi monaci-evangelizzatori è di rivivere lo spirito della chiesa primitiva di Gerusalemme “comunione di vita, preghiera, lettura dei libri santi, fedeltà all’insegnamento degli apostoli”.

Essi inoltre so tenevano disposti ad annunciare la Parola a quanti lo desideravano, non si imponeva ad alcuno quel messaggio, ma si era disponibili alle richieste dei fratelli. Si dice che i pagani, commossi dalla vita evangelica che i monaci vivevano, si convertivano alla fede.

Gregorio si premurerà di dare direttive quanto mai aperte a riguardo dell’inculturazione del messaggio annunciato. Agostino (capo della missione romana in Inghilterra) non doveva irrigidirsi nel conservare le consuetudini liturgiche della chiesa di Roma, ma si premurò di raccogliere usi e consuetudini del luogo e di esse fare quasi “un mazzo di fiori” da offrire alla chiesa locale che si inseriva in Inghilterra.

E’quest’ottica che garantisce alla vita monastica di Benedetto un peculiare senso ecclesiale. Il monastro e il monaco di Benedetto sono luoghi in cui si educa alla solidarietà cristiana.

ATTUALITA’ DELLA PROPOSTA MONASTICA.

Nel libro III dei Dialoghi c’è un apoftegma della vita di S. Benedetto in cui si parla di un monaco eremita che, per molti anni, rimase chiuso in una angusta caverna, come Benedetto nello speco. Egli, in un primo tempo, quando ancora no abitava nella caverna chiusa, si era legata al piede una catena di ferro, fissando nella roccia l’altro capo, in modo che no gli fosse possibile fare un passo più in là della lunghezza della catena.

Quando il fatto giunse all’orecchio di Benedetto, egli mandò un suo discepolo a quel monaco per dirgli. “ se sei servo di Dio non ti costringa la catena di ferro, ma il vincolo che è Cristo” Martino, udito questo monito, subito sciolse la catena, ama anche libero, mai il suo piede varcò il luogo dove prima era incatenato: egli si costrinse a rimanere in quel limite ove prima era legato, ma ora lo faceva per amore.

Questo racconto attualizza la proposta monastica nella chiesa.

“Non sia la catena di ferro a tenerti legato, ma la catena di Cristo”. In altri termini, abbiamo il passaggio dalla lettera allo Spirito. E’ la pedagogia della fede. :e chiusure evangeliche credo si possano esprimere nella catena di ferro; Gesù, invece, è la catena dell’amore. Le scelte devono essere animate e guidate dall’amore.

C’è una dottrina tradizionale che ci parla di un monachesimo interiorizzato e occorre riproporla sempre alla chiesa: Nella storia c’è stata una preoccupazione di “monasticizzare” la chiesa. Per alcuni risvolti medioevali, il monastero era l’ancora di salvezza; al di fuori di esso non c’era salvezza.

Questa tesi impoveriva la dimensione chiesa-comunione in cui ogni carisma è dono dello Spirito e nessuno può monopolizzare un altro.

Contemporaneamente al processo di monasticizzazione si è avuta una massiccia clericalizzazione, che faceva scorgere nel clero il carisma quasi monopolizzatore della chiesa. Il nostro cammino di fede esige di superare queste “zone” privilegiate a favore della comunione ecclesiale; tutto è dono dello Spirito e gloria del Signore, a servizio dell’uomo, per la crescita nell’amore. E’ vero però che ogni carisma si riflette su un altro, per quella legge di sussidiarietà necessaria per la crescita della chiesa.

Come si riflette dunque il monachesimo nel corpo della chiesa?

Anzitutto la comunità di Benedetto ripropone la centralità della Pasqua.

Il Signore è risorto! La Pasqua, che caratterizza la vita di Benedetto come padre dei monaci, costituisce la nota di identità che il monachesimo propone al credente che vive nel mondo, nell’assillo della città secolare, col rischio di posporre questo valore di fondo ad altri aspetti non essenziali allo stesso titolo.

La centralità della Pasqua educa il cristiano a una visione nuova della vita, della storia, del tempo. Si potrebbe pensare che questa riproposta si esaurisca nella centralità della liturgia, intesa soprattutto come atto cultuale. Ma la Pasqua fa scoprire soprattutto il rapporto tra liturgia e vita, tra culto e impegno operativo. La Pasqua, come rende radicale il monaco nel suo rapporto con il Vangelo, così conduce ogni cristiano a considerare seriamente tutta la provocazione evangelica, per are della vita un segno del Regno che già opera tra di noi, Regno già inaugurato.

Il celibato monastico, “segno del Regno”, diventa esortazione a scoprire quella legge dell’amore totalizzante a Dio e a i fratelli, che è lo scopo della vita, dovunque e comunque si viva.

I due apoftegmi della vita di Benedetto ( il primato dell’amore espresso nell’episodio della visita alla sorella Scolastica e la catena di Cristo, non quella di ferro) sono molto significativi.

In una società fortemente efficientistica, se non c’è più tanto il pericolo dell’ascesi auto gratificante, emerge la necessità ancor più della riproposta del primato dell’amore, dono pasquale che a Cristo si ispira. E’ l’amore che deve animare ogni nostro impegno. Si pensi al dialogo tra la chiesa a il mondo.

La centralità della Pasqua nella vita di Benedetto, fa superarla dimensione di “fuga dal mondo”, con cui siamo tentati di guardare al monachesimo. Benedetto, invece, viene ricollocato nel mondo della Pasqua, come segno profetico di cieli nuovi e terra nuova. Pare questa una testimonianza di speranza provocata dalla Pasqua per ogni cristiano.

E la Pasqua richiama al primato della Parola di Dio; siamo nell’attesa di cieli nuovi in cui inabita la giustizia. Cristo è risorto e ci ha dato il suo Spirito. Il cristiano si pone come “germe” di vita nuova, “seme” da cui esplode la proposta del Regno, fermento che farà lievitare tutta la pasta.

Insieme alla Pasqua il monachesimo offre la Sacra Scrittura come libro di una costante attuazione, profezia di nuove situazioni, se accettiamo la legge base di ogni interpretazione biblica e la conversione nostra a Cristo Signore.

Il monachesimo di Benedetto ci educa al dialogo, a saper prestare il nostro orecchio a Dio, alla sua Parola e perciò a saper ascoltare anche gli uomini. La Regola di Benedetto si apre con un prologo che può essere preso come “magna carta” della spiritualità cristiana.

“Ascolta figlio gli insegnamenti del maestro, tendi l’orecchio del tuo cuore e volentieri accogli i consigli di un tenero padre e praticali risolutamente per tornare con la fatica dell’obbedienza a Colui dal quale tu ti eri allontanato per l’accidia della disobbedienza. A te pertanto si rivolge la mia parola.” (Prologo della Regola)

In tutto il prologo c’è questo dialogo continuo tra Dio che parla e il figlio che ascolta. Dio parola attraverso la Scrittura che “ci sveglia e dice: è l’ora di alzarci dal sonno.. Oggi se udite la sua voce non indurite il vostro cuore… Siano dunque la fede e la pratica del bene le armi cinte al nostro fianco e, guidati dal Vangelo, incamminiamoci per le sue strade: saremo così degni di vedere Colui che ci ha chiamati nel suo Regno” (Prologo).

Ecco la centralità della Pasqua nelle Scritture, con cui Dio si rivolge a noi. Qui si inserisce il rapporto spirituale che la proposta di Benedetto ha avuto con il nostro mondo occidentale, con l’Europa che hanno conosciuto il Vangelo attraverso i monaci.

Se la proposta “lavoro” della Regola ha subito vicissitudini e non è più monopolio della società monastica, né i monaci possono ancora presentarsi come modelli di tecnici del lavoro, come era nell’alto medioevo, ciò è ben comprensibile e non poteva essere altrimenti nello sviluppo dell’autonomia della scienza. I monaci riemergono come “offerta permanente” di un discernimento peculiare sul metodo di lettura della Parola di Dio. La teologia monastica riconosce il primato della Parola, che diviene “dialettica teologica” o “dinamica” attraverso la lectio, meditatio, oratio, contemplatio, evangelizatio.

Per parlare di Gesù è indispensabile che noi entriamo nel suo spirito, e per annunciarlo dobbiamo fare esperienza. Bisogna far sì che la preghiera sia momento espressivo di un cammino di vita e non un qualcosa di aggiuntivo. I Padri dicevano che ci si deve nutrire della Parola come ci si nutre quando si mangia; è lo stesso processo di assimilazione, di nutrimento. E’ il processo che si attua quando noi leggiamo la Parola di Dio, che si fa anche programma di una ermeneutica esistenziale, onde comprendere la Parola e tutte le sue possibilità nell’oggi salvifico.

Si legge la Bibbia nell’unità dei due Testamenti, guidati dal mistero pasquale, che crea e ripropone la comunità ecclesiale nell’oggi storico.

La meditazione va così molto al di là della semplice memorizzazione o riflessione psicologica del mistero salvifico. Essa sta ad indicare quella attenzione costante che è frutto della Parola e un’esigenza dei “segni dei tempi”. Proprio come “Maria-Chiesa” di Luca, che conserva tutte queste cose nel suo cuore meditandole attentamente (D.V. n.8).

Il monachesimo diventa fermento di vita cristiana, perde le sue note specialistiche. Tutti siamo alla scuola di Dio e il monaco presenta la sua esperienza. La preghiera sarà la nostra risposta al dialogo con cui Dio ci interpella: “si faccia di me secondo la tua parola” o l’”eccomi” di Abramo o il nostro “amen”. La contemplazione sarà fioritura di gioia nella verità e canto nelle sue varie forme e momenti; l’evangelizzazione condurrà a proclamare le meraviglie di Dio.

La prima evangelizzazione è così la prima celebrazione liturgica che atta la parola del mistero pasquale. Esso, attraverso il segno sacramentale e la fede della comunità, si staglia nel tempo, facendo del “tempo” il “Tempo”, l’oggi della salvezza, la nostra Eucarestia.

La vita monastica, grazie a un certo ambito di libertà con cui essa si pone nella Chiesa stessa e nella società, può offrire questo spazio a tutti i cristiani onde poter riflettere, con questa preoccupazione, sulla Parola di Dio.

Si può capire a questo proposito, il servizio prezioso che il monachesimo può offrire all’ecumenismo: Il monachesimo è un fatto che precede ogni divisione storica nella chiesa, e per la sua tradizione precristiana, è capace di entrare in dialogo con le grandi religioni non cristiane.

Nel’ambito della lectio e della preghiera (e con esse l’interiorizzazione del deserto), il monachesimo si propone un recupero dell’interiorità cristiana, che si sviluppa per la presenza dello Spirito Santo nel cuore del credente.

La nostra catechesi comune non ha sufficientemente sviluppato tutto l’aspetto pneumatologico della vita spirituale. E’ lo Spirito Santo il vero Signore delle coscienze dell’uomo. E’ lui l’artefice della vita spirituale. Non ci può essere vita monastica senza questo rapporto con lo Spirito Santo; la solitudine monastica si può accettare come momento per esprimere la preponderante presenza dello Spirito in noi. La vita monastica ripropone la possibilità dell’esperienza mistica, del rapporto profondo con Dio.

Nel Nuovo Testamento ci è stato dato lo Spirito Santo del Signore risorto, che ci dice che Dio è Padre; ed è lo Spirito la suprema legge della nostra coscienza. Si sviluppa un metodo di lettura della Parola di Dio e la chiave ermeneutica è l’esperienza spirituale. C’è un testo di Cassiano che afferma che il monaco canta Salmi come preghiera “composta da sé” o almeno dall’autore ispirato composta come prevedendo questo momento esistenziale, concreto e storico.

Così questa Scrittura si compie in quel momento nella vita del monaco “quello che si dice nei Salmi lo vede compiersi in sé”.

Valore della comunità.

In una società sempre più dominata dall’individualismo, dal privato, la comunità monastica si pone come provocazione profetica “Ecco come è bello che i fratelli vivano insieme” – “Dove ci sono due o tre radunati nel mio nome, là ci sono anch’io”.

La comunità monastica benedettina nasce nella chiesa, è costituita segno ecclesiale aperto, ad essa si avvicina il popolo di Dio. Benedetto è amico di vescovi, diaconi, poveri.

“L’ultima goccia di olio nel monastero è per i poveri: Quando il cellerario non vuole dare l’olio al povero, Benedetto, adirato, dice di buttare via l’ampolla sopra la roccia. Ma l’ampolla non si ruppe, e da quel momento non mancò più l’olio in quel monastero”.

La comunità monastica si pone come luogo di accoglienza per fare esperienza della Parola di Dio. Nessuna comunità può monopolizzare i doni di Dio, ciascuna deve essere sussidiaria gli uni agli altri. La comunità si apre dunque al’accoglienza: nell’ospite si riceve Cristo, dirà la Regola. L’ospitalità monastica propone un modello “primitivo” della società (società contadina aperta al fratello), ma con questo ministero dell’accoglienza essa si ispira alla benevolenza con cui tutti siamo accolti dal Padre.

L’ospitalità ripropone la visita di Dio all’uomo, il suo pellegrinaggio di amore. L’ospitalità è così un mistero, che a livello comunitario si esplica e si attua nella chiesa. La comunità ha così un messaggio da “dare” e da “dire”.

C’è dunque una attualità nella proposta di S. Romualdo alla spiritualità benedettina del sec. XI.

La legge del triplice bonum, così enunciata e testimoniata dalla vita dei primi discepoli di S. Romualdo:

  1. Per quelli che vengono direttamente dal secolo la comunità accogliente, il desiderabile cenobio:
  2. Per i maturi assetati di Dio, l’aurea solitudine dell’eremo;
  3. Per quelli infine che bramano di sciogliersi e desiderano dare la vita per Cristo, il Vangelo tra i pagani.

E’ il triplice bene dell’unità dell’esperienza monastica: il cenobio, l’eremo, l’evangelo.

E’ una dinamica eminentemente evangelica degli strumenti della fede che, iniziando dal semplice punto psicologico, giunge fino ad uno sviluppo di alta teologia.

Emerge la comunità come primo sussidio pedagogico / comunità come pedagogia ma anche come incontro con la chiesa-comunione); la comunità non è chiusa in se stessa ma è ordinata alla persona, al suo sviluppo. Nella vita spirituale monastica, criterio di questo cammino è lo spazio di libertà che si può chiamare il bene della contemplazione. La solitudine del’eremo esprime questa realtà. Finalmente tutto è ordinato alla carità perfetta, espressa nella predicazione dell’evangelo.

 

 

La simbolica della luce a doppio effetto: il cieco è illuminato, i vedenti sono accecati Gv 9,1-41

Nella IV Domenica di Quaresima leggiamo il Vangelo di Giovanni, cap 9,1-41. Riproponiamo la scheda completa degli incontri sul tema indicato nel titolo, tenuti nel mese di luglio 2016 a S. Maria in Colle.

LA SIMBOLICA DELLA LUCE A DOPPIO EFFETTO:

il cieco è illuminato, i vedenti sono accecati Gv 9,1-41

 Si tratta di un brano importante all’interno del Quarto Vangelo. La chiesa antica e la catechesi battesimale dei padri rileggevano con grande interesse il cap  9 perché esso narrava il cammino progressivo della fede o il progressivo accecamento. Oggi si parla di simbologia visiva che intreccia luce, acqua, fango, le opere di Dio, il senso vero del peccato, il dono singolare che Dio ha fatto all’umanità donando il suo Figlio (cf Gv 3,16). Lavarsi nella piscina di Siloe è come un’anticipazione del crocifisso, dal quale esce l’acqua e il Sangue che lavano e salvano (Gv 19,34; cf Gv 4,10-14; 7,37-39).

Il tema della luce nel contesto della sezione Gv 7-11, trova nel cap 9 il suo cuore.

Gesù viene narrato come luce, la sua missione di illuminazione permette di vedere. Naturalmente al lettore viene chiesta una partecipazione attiva che riesca a leggere il gioco del simbolo, passando da una realtà materiale a quella del suo significato simbolico

In San Giovanni troviamo molteplici simboli: la luce, l’acqua sorgiva, il pane di vita. Essi descrivono degli archetipi, realtà costitutive che danno continuità e progressione alla narrazione, ma anche all’esperienza della vita. Se non si decifrano i simboli, Giovanni diventa incomprensibile. Parallelamente cresce l’interesse per il tema della cecità, della vista, della luce. Il Prologo sottolinea questo tema della luce e del vedere (Gv 1,1-18). Il cap 9 sembra fare da perno, da punto di svolta per arrivare ai racconti pasquali (cap 20-21), dove il problema sarà proprio il vedere, il saper leggere la realtà simbolica cristologica per arrivare alla fede. Vedere diventa un simbolo per dire la fede, per dire il nostro cammino, mescolato da permanenti cecità, fino a che arriveremo all’escaton, dove il fango sarà per sempre lavato (Gv 9).

L’esegesi odierna è un cantiere aperto

Secondo l’analisi narrativa, come accennato all’inizio, oggi si attribuisce grande importanza al processo di progressiva cecità e allo sforzo del vedere realmente. Anche nel Vangelo di Marco, cap 8,22-26 il cieco prima vede confusamente (uomini come alberi) e poi “vedeva a distanza ogni cosa”. Cf cap 10,46-52.

Il metodo di lettura: guardare il movimento letterario più vasto

Contestualizzare il brano di Gv. cap 9 e vederlo nell’intera opera cogliendo le varie prospettive dell’essere cieco.  Se guardiamo il cap 5 il paralitico guarito non raggiunge la fede. Se mi fermassi qui?  Sarebbe un fallimento. Guardando i punti di contatto tra 5 e 9 vedo molti legami, nel cap 9 l’esito è positivo, mentre nel cap 5 vi è una sospensione. I testi ricevono la luce quando sono letti all’interno del movimento letterario più vasto.

La trama narrativa di Giovanni

La solenne apertura: Il Prologo teologico (1,1-18). Con esso il lettore è introdotto nell’universo giovanneo.

Poi una grande parte denominata Libro dei Segni (1,19-12,59). Giovanni preferisce questo termine a quello del miracolo o delle opere meravigliose. In questa parte siamo condotti attraverso una selezione di segni esemplificativi, alternati da lunghi discorsi che a volte terminano in monologhi. La trama ci conduce alla scoperta della vera identità di Gesù e alle possibili risposte umane di fronte al suo rivelarsi.

I segni sono una specie di caposaldo dello sviluppo narrativo (2.4.5.9.11) approfondito dai discorsi che illuminano il loro significato profondo.

Si parla di una raccolta di sette segni:

  1. Cana – 2,1-12
  2. Funzionario regio – 4,46-54
  3. Paralitico – 5,1-18
  4. Il pane moltiplicato – 6,1-15
  5. Il cieco nato – 9,1-41
  6. Lazzaro – 11,1-44
  7. Il settimo segno per eccellenza sarà la Risurrezione, prefigurata in 2,18-19 e 10,17-18.

A questo segno si potrebbe aggiunger il vino, l’acqua e il Sangue del Crocifisso (19,17-37).

La narrazione avviene secondo un crescendo dell’identità di Gesù, fino al suo potere di risuscitare i morti. Parallelamente, abbiamo un progressivo irrigidimento di alcuni, che rifiutano Gesù, diventando ostili fino a eliminarlo. Giovanni presenta così il tema del superamento della cecità o del progressivo accecamento. Alcuni esegeti catalogano come Segno Gesù che cammina sulle acque (cap 6), e integrano con la cacciata dei venditori (2,13-22) o l’unzione di Betania (12,1-8).

La suddivisione del Libro dei Segni

La settimana inaugurale che si conclude con le nozze di Cana fino al cap 4. Da Cana a Cana: 4,1-4.

La sezione 5-10: Gesù reinterpreta le feste giudaiche conducendole alla pienezza della sua opera.

La conclusione del Libro dei Segni (cap 11-12) diventa anche introduzione al Libro dell’Ora: la seconda grande parte (13-21).

Vediamo le singole sezioni del Libro dei Segni:

  • Prima sezione: cap 1-4
  • Dopo il Prologo innico: 1,1-18
  • La settimana inaugurale: prologo narrativo 1,19-2,11
  • Il segno di Cana che fa da cerniera perché apre su altre sequenze in cui Gesù si sposta dalla Galilea a Gerusalemme (2,13); (cacciata dei venditori – secondo segno 2,13-25).
  • Dialogo di approfondimento con Nicodemo a Gerusalemme (3,1-36).
  • Gesù torna in Galilea, attraversa la Samaria (la Samaritana) dialoga con la donna (4,1-42).
  • 4,43 – Gesù riparte per la Galilea e viene a Cana dove aveva cambiato l’acqua in vino (4,46). Ecco la cornice, che si chiude con il secondo segno (4,46-54): il funzionario regio.

Lungo il cammino, Giovanni ci fa incontrare con i rappresentanti di vari gruppi, che forse costituiscono il tessuto della comunità giovannea, e per noi il tessuto delle nostre comunità (Brown, La comunità del discepolo prediletto).

Gesù attraversa e incontra, ma non resta prigioniero delle relazioni che lo attorniano. Incontra le varie rappresentanze, le varie anime del tessuto religioso-sociale e cerca di aprirle: l’esponente ufficiale del giudaismo, Nicodemo, il Battista, la Samaritana sismatica, i suoi cittadini, il funzionario del mondo pagano. Se ora guardiamo in modo globale lo scorrere narrativo di Giovanni constatiamo come lui selezioni il materiale della tradizione e lo disponga secondo la sua ottica.

La solennità innica è il punto di partenza della lettura.

Troviamo nell’inno – prologo un moltiplicarsi di immagini: parola, luce, vita, tenebre, mondo, i suoi (giudei), il Battista, le testimonianze, la creazione, il figlio, l’uomo. L’inno riassume tutta l’opera, proiettando sui lettori la prospettiva di ciò che intende narrare e facendo intuire l’opportunità dell’offerta: il Vangelo e chi è colui che lo offre. Una ricchezza da cui attingere secondo un crescendo (1,16).

 

L’inno avverte che l’offerta meravigliosa spesso non sarà capita e accolta proprio dai suoi, che i malintesi saranno ricorrenti. E le pretese di coloro che pensano di disporre del mistero di Dio devono mettersi al seguito di Colui che è Unico per nascita e condizione (1,18). La sua offerta ci fa diventare figli grazie a Lui che condivise la nostra carne e finitudine nel cammino della nostra esistenza (1,14). Coloro che lo accolgono godono della potenzialità di diventare figli perchè attingono dalla sua pienezza (1,16).

Segue il prologo narrativo, in cui emergono i riferimenti spaziali e temporali, i simboli e l’inclusione settimanale, lo sviluppo, il cammino rivelativo, le mediazioni. Compaiono i personaggi della settimana inaugurale col Nome (1,19-2,12): dal Battista (tramite testimoniale e vertice del Primo Testamento) fino alla scoperta dell’Agnello di Dio (termine pasquale), l’esperienza dei primi discepoli, la cui sequela è embrionale fino ad approdare al gruppo presente a Cana con la promessa a Natanaele: “Vedrete cose più grandi di queste” (1,51). Si profila l’attesa, che nel Segno archetipo di Cana indica il futuro nuziale della festa e del vino buono, come meta dell’opera di Gesù e del cammino della fede di tutti noi.

Dunque il lettore si aspetta di vedere altri segni. L’invito è di proseguire il cammino di lettura, accompagnati dalla mediazione dell’autore e della comunità per entrare nell’evento Gesù, nella sua identità e nella sua pienezza, che offre e dona progressivamente.

A Cana l’ignoranza sul Maestro non è colpevole, mentre lo sarà per altri, soprattutto al cap 9, dove si consuma la chiusura dei giudei.

Da Cana si riparte per la seconda sezione – 2,12-4,54 – incorniciata da due Segni che avvengono proprio nella cittadina. Il cammino apre sulla Pasqua a Gerusalemme dove troviamo la purificazione del tempio. Le autorità giudaiche diventeranno sempre più chiuse e ostili e nella terza pasqua consumeranno il sacrificio di Gesù.

L’episodio di Nicodemo segnala una possibile apertura, ma con resistenze; egli ritorna al cap 7 e al 19, 39 finalmente capace di scegliere e decidersi per Gesù. Anche per chi appartiene alla classe dirigente paurosa e ostile, è possibile un cammino progressivo di ripensamento; all’inizio clandestino, poi la testimonianza. Ritroviamo il simbolo di Nicodemo nei genitori del cieco (cap 9) che, per paura, non si espongono, ancora indecisi di venire alla Luce.

Nel cap 4 l’autore allarga l’orizzonte: Gesù non è solo il Messia per Israele, ma il Salvatore del mondo così lo confessano i Samaritani (4,42).

La Samaritana poi, assomiglia al cieco nato, essa mostra interesse e accetta di essere accompagnata da Gesù. Compare il tema dell’acqua e del dono di Dio (Siloe – Piscina dell’inviato che lava). Emergono i titoli: profeta, Messia – Cristo, Figlio dell’uomo, Signore. Il verbo “dire” (4,26 – cf 9,37); poi “da dove” (4,11 e 9,29-30). Infine il tema dell’adorare (4 e 9). L’ultimo episodio riguarda l’ufficiale: il padre col figlio, il cieco con i genitori. L’ufficiale crede senza vedere i segni (4,48), ma sulla Parola (4,50) si mette in cammino.

Riferimenti bibliografici

Marchadour, I personaggi del Vangelo di Giovanni, EDB 2007

M.L. Rigato, Giovanni, EDB 2007, in particolare pp 121-256

  1. Vignolo, Personaggi del Quarto Vangelo, Glossa 1994
  2. Brown, Il Vangelo e le lettere di Giovanni, Queriniana 1994.

 

LA SEZIONE CENTRALE DEL LIBRO DEI SEGNI  capp. 5 – 10

Questa sezione è dedicata alla reinterpretazione delle feste giudaiche in chiave cristologica. Giovanni scandisce la sua narrazione nominando le grandi feste giudaiche:

  • La Prima (Pasqua) 2,13-25;
  • La Seconda – 5,1-18: l’evangelista non lo specifica;
  • La Terza: Pasqua chiamata genericamente festa dei Giudei (6,1-71);
  • La Quarta: festa dell’Esodo (7,1ss);
  • La Quinta: la Dedicazione del Tempio (10,22ss).
  • La Sesta Pasqua, denominata ancora festa dei Giudei (11,55).

Giovanni mette in relazione tutte le feste con l’evento Gesù, soprattutto la sua Pasqua, il cammino del deserto, il dono della Torà, la persona di Gesù, vera dedicazione del Tempio, non costruito da mani umane, luogo della presenza di Dio e dell’offerta a Lui gradita. La sesta Pasqua segna la fine della missione terrena di Gesù Messia, figlio di Dio e dà inizio alla Settima Pasqua, la Sua Pasqua: il compimento di tutta la storia del Dio che salva, consegnando il suo Figlio al mondo, che Egli continua ad amare.

Il Vangelo dell’Ora Gv 13-21: La seconda grande parte del Vangelo giovanneo

 Reinterpretazione delle feste giudaiche, 5-10

Il materiale raccolto dall’evangelista sembra non avere un ordine: la moltiplicazione dei pani (cap 6); l’adultera (cap 7,53-8,11) addirittura proveniente dalla tradizione sinottica; il Buon Pastore (cap 10). L’evangelista approfondisce queste narrazioni con dei lunghi discorsi, creando così una prospettiva unitaria il cui legame è la reinterpretazione delle feste giudaiche in chiave cristologica.

Un secondo legame è il riferimento costante con la narrazione del cieco (Gv 9).

Abbiamo questa figura geometrica    7-8 —————- 10

9 (Il cieco)

una possibile struttura del come l’evangelista ha disposto i materiali preesistenti dando una singolare reinterpretazione (vedi l’opera incentrata in Gesù). ( Mlaknzhyl, La disposizione cristocentrica, Analecta Biblica, n 117, 1987).

  1. Gesù, Figlio di Dio guarisce il paralitico di Sabato (azione + discorso), 5,1-47;
  2. Gesù dona il pane di Vita prima della Pasqua (azione + discorso) 6,1-71;
  3. Festa delle Capanne: ricorda il cammino dell’Esodo sotto la tenda e Dio che dona la Torà per il cammino). Gesù è sorgente di acqua e di Luce 7,1-8,59.
  4. Gesù luce, guarisce e illumina il cieco nato, di Sabato 9,1-41
  5. Gesù Bel Pastore 10,1-21
  6. Festa della Dedicazione: le opere e l’identità di Gesù Messia 10,22-42.

Sguardo sommario delle tematiche

Gesù è il Figlio di Dio che guarisce (cap 5) e illumina l’uomo (cap 9); dona la vera vita (10,22-42) perché è il vero Pastore, che offre al gregge la sua vita (cap 10), e il Pane disceso dal cielo per la vita eterna dell’uomo (cap 6). Una particolarità stilistica che funziona da collegamento è il giorno di Sabato, nominato esplicitamente nella guarigione del paralitico (Gv 5,9) e del cieco nato (Gv 9,14). Il tema della piscina (5,2+9,6; nella sezione 7-9 Gesù si definisce la sorgente dell’acqua viva e la luce: sono i due elementi della festa delle Capanne, memoria dell’Esodo, in cui Dio assicura l’acqua ed è la Nube luminosa che indica la Via.

Il paralitico (cap 5) e il cieco nato (cap 9)

Nelle due narrazioni il miracolo viene come relativizzato dal lungo dibattito incentrato sulla figura e l’opera di Gesù. Per Giovanni, il centro non è il miracolo, ma il suo significato profondo in riferimento all’identità di Gesù e alla sua opera. I due discorsi sviluppano proprio le opere compiute dal Padre e dal Figlio suo (5,17-36 e 9,3-5). Centro di questo dinamismo operativo del Padre è mostrare al Figlio, (far vedere) come Lui opera (5,20), tema ripreso nel cap 9,3. Si visualizzano così le opere del Padre compiute da Gesù.

Altre ricorrenze tematiche: risuscitare (dare la vita), non giudicare. Gesù si autodefinisce l’Inviato di Dio (5,23-38 e 9,4-7); il Figlio dell’uomo (5,25 e 9,35-38). Relazione tra peccato e malattia, Gesù non giudica ma opera (5,14; 9,1-3). Due testimonianze autorevoli: il Battista 5,34-35 e Mosè 9,27.

I farisei sono ciechi perché non vedono nelle Scritture ciò che si riferisce a Gesù (essi scrutano ma non vedono – 5,36-46), addirittura scelgono l’ostilità nei confronti di Gesù 9,39-41. E così la loro colpa ( il peccato)  rimane. Il tema-malattia nei due brani subisce il capovolgimento: chi pecca? I malati o i sani? Al paralitico Gesù chiede se vuol guarire, poi agisce con la Parola, al cieco nato Gesù non chiede niente ma interviene (9,6), usa dei gesti simbolici (il fango spalmato sugli occhi) accompagnati dall’ordine: “va, lavati nella piscina, Siloe, che significa Inviato” (9,7). Al cieco Gesù comanda di camminare fino alla piscina; evidentemente si tratta di un cammino simbolico, di un’azione visiva, poi Egli scompare. Quando ricompare, Gesù  nei due racconti incontra il paralitico nel tempio (5,14) e il cieco fuori del tempio (9,35) perché era stato cacciato dai Giudei. Si annuncia così Gesù il Buon Pastore che raccoglie e chiama le sue pecore ( cf Gv 10)

Che significa tutto questo? Il dialogo lo fa intravedere: il paralitico non sa rispondere, mentre il cieco è sempre  più motivato, cammina accogliendo la Rivelazione di Gesù che svela il significato profondo illuminandolo con la sua Parola. Si registra così la simbolica a doppio effetto, che oppone i due cammini: esattamente quello che è narrato nelle sezioni 7-8 e 10. Ciò che racconta il paralitico ai giudei è una testimonianza imperfetta o un’accusa? (5,15). Nell’episodio del cieco si resta affascinati dal come quest’uomo matura il cammino di illuminazione di fede, fino a culminare nell’adorazione (fuori del tempio, esattamente come Gesù disse alla samaritana (4,21ss) accompagnata dalla parola: “Credo, Signore” (9,38) che anticipa il discepolo amato (Gv 20,8) e Tommaso (20,28).

Nell’episodio del paralitico (5,16) i giudei accusano il guarito di aver camminato e portato la barella di Sabato, e successivamente accusano anche Gesù. In 9,16 l’accusa prima è rivolta a Gesù, discutendo sulla legittimità del suo agire, infine disprezzano il cieco fino a cacciarlo fuori (9,34).

Il paralitico e il cieco, nell’elaborazione giovannea, diventano personaggi rappresentativi e simbolici che si completano a vicenda, sia pure nella forma opposta.  Il primo non approda alla fede, il cieco lo fa con sempre più determinazione e profondità. Giovanni, con una finezza letteraria,  colloca i due personaggi di Sabato e alla fine della sezione (5-9), inizio e termine delle feste giudaiche, creando così il cammino del come Gesù compie e realizza il Primo Testamento.

Il rapporto tra il cap 6 e il cap 9

Il discorso di Gesù sul pane sottolinea il pericolo di vedere i segni distorcendoli nel loro significato. “Mi cercate perché avete mangiato” (6,29 e 6,36). “Mi avete visto e non credete”. E’lo stesso tema che si ripropone poi nel cap 9. Facendo la somma dei due capitoli si deduce che compiere l’opera della fede costa fatica (6,60). Dunque, datevi da fare “per il cibo che rimane e offre la vita eterna, quello che il Figlio dell’uomo donerà, perché su di lui il Padre ha messo il suo sigillo (6,27).

L’ultima parte della sezione del Libro dei Segni: cap 11-12

Il Libro dei Segni (1-12) si chiude con una parziale delusione dell’opera di Gesù e la sua condanna a morte da parte dei vertici istituzionali del giudaismo (il Sinedrio – 1,47-53e 54). Si legga a proposito la conclusione (Gv 12,37-50: Sebbene avesse fatto tanti segni miracolosi in loro presenza, non credevano in lui; affinché si adempisse la parola detta dal profeta Isaia:
«Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? A chi è stato rivelato il braccio del Signore?»  Perciò non potevano credere, per la ragione detta ancora da Isaia: «Egli ha accecato i loro occhi e ha indurito i loro cuori,affinché non vedano con gli occhi,e non comprendano con il cuore, e non si convertano, e io non li guarisca». Queste cose disse Isaia, perché vide la gloria di lui e di lui parlò. Ciò nonostante, molti, anche tra i capi, credettero in lui; ma a causa dei farisei non lo confessavano, per non essere espulsi dalla sinagoga; perché preferirono la gloria degli uomini alla gloria di Dio.
Ma Gesù ad alta voce esclamò: «Chi crede in me, crede non in me, ma in colui che mi ha mandato; e chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto come luce nel mondo, affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se uno ode le mie parole e non le osserva, io non lo giudico; perché io non sono venuto a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo.  Chi mi respinge e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annunciata è quella che lo giudicherà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato di mio; ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato lui quello che devo dire e di cui devo parlare; e so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre me le ha dette.

Il dono della vita di cui si è parlato soprattutto nel cap 10 (Il Buon Pastore) si realizzerà attraverso un sacrificio cruento (l’uccisione). Il lettore è informato che non sarà una vittoria violenta di Gesù sui suoi avversari (12,9-19).

Tuttavia leggendo globalmente l’intera prima parte, si dovrà notare che il fallimento non è totale; una parte, anche se piccola, aderisce a Gesù. Tra i capi spicca Nicodemo (cap 3), la Samaritana e i samaritani, i discepoli (6,67-71) che dal cap 7-8 emergono per la loro adesione a Gesù: sono le sue pecore (cap 10). Nel cap 9 è il cieco illuminato, poi i greci (12,20ss). In un contesto di conflitto, Gesù non assume mai comportamenti violenti; si ritira, eppure la sua missione si presenta fruttuosa. La finale del cap 12,37-50 commenta questo: v. 37 “sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in Lui” affinchè si compisse Is 53,1: “Signore chi ha creduto alla nostra parola”.  E Is 6,9-10: “Ascoltate, sì, ma senza capire; guardate, sì, ma senza discernere!” Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendigli duri gli orecchi, e chiudigli gli occhi, in modo che non veda con i suoi occhi, non oda con i suoi orecchi, non intenda con il cuore, non si converta e non sia guarito!»  ***

Si riprende così il collegamento con la simbologia del vedere e dell’accecamento raccontato nell’episodio del cieco nato ( Gv 9,40), a conclusione di un conflitto che dura da molto tempo.( 8,59; 10,31-39).

Il Segno di Lazzaro – cap 11 — mette in luce tutta la dialettica esposta dall’evangelista: la malattia di Lazzaro, l’amico di Gesù, il suo sonno, la morte, la risurrezione. Sono tutte tematiche che indicano un cammino ed esplicitano il legame con la Pasqua di Gesù; la fatica del credere, la fedeltà di Gesù, che nonostante sia continuamente osteggiato, non ritira il suo dono, non modifica il progetto della sua missione. Egli sa che l’innalzamento (morte di croce) realizzerà una forza di attrazione. “Attirerò tutti a me” (12,32) compiendo la profezia di Caifa (11,51-53): “Or egli non disse questo di suo; ma, siccome era sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi. Da quel giorno dunque deliberarono di farlo morire.”

L’ultima sezione (11-12) del Libro dei Segni, oltre che funzionare da conclusione, apre sulla seconda grande parte: il Libro dell’Ora (13-21) in cui Giovanni propone una lettura matura degli avvenimenti pasquali, secondo questa disposizione:

13-17—Introduzione (prologo) ed approfondimento dell’Ora. L’evangelista prima di narrare la Pasqua la interpreta creando così una guida per il lettore.

18-19 – L’Ora narrata, molto densa: centrale nel conflitto Luce-Tenebre la proclamazione solenne di Pilato: Gesù re dei Giudei, la morte, il dono del Crocifisso nuovo tempio con la promessa – profezia: “Guarderanno Colui che hanno trafitto”(Gv 19,37).

20-21 – L’Ora della svolta luminosa: Gesù è ritrovato come centro della comunità (20, 19 ss). La chiesa diventa missionaria (21), Gesù è presente nel lavoro della pesca, nell’Eucarestia, nella vita della sequela, nella differenziazione dei carismi e nelle mediazioni. La comunità è tenuta insieme mentre cammina verso la meta dalla rete della sua presenza pasquale. Le grandi conflittualità (153 grossi pesci) non spezzeranno la Rete. Giovanni confessa: la Morte-Risurrezione di Gesù riunirà tutti i figli di Dio dispersi dalla storia. L’evangelista, attraverso il gioco delle figure e delle funzioni rappresentative, visualizza la chiesa sempre chiamata e guidata dal suo Signore.

IL VEDERE SIMBOLICO CONTRADDETTO

La tensione tra il vedere e il suo significato

Il cap 9 (il cieco nato) costituisce il punto d’arrivo del rapporto vedere-udire-credere, mai narrato in maniera così dettagliata fino ad ora. Ma è anche il punto di partenza per leggere e confessare in modo nuovo la via necessaria per entrare nella beatitudine di chi crederà senza vedere (20,28.29).

Il cap 9 mette in evidenza la fatica del credere, gli schieramenti opposti nei confronti dell’identità e dell’opera di Gesù, il rifiuto definitivo dei giudei e la testimonianza del cieco che viene cacciato fuori (11,34) dalla sinagoga (9,22).

L’episodio del cieco si presenta come il perno della simbologia visiva contraddetta, collocato a metà strada tra il Prologo e il cap 20, che realizza e propone il nuovo credere senza vedere.

L’episodio di Gv 9,1-41

Delimitazione del brano: l’inizio e la fine mostrano l’autonomia del narratore, che delimita bene l’episodio. Il ruolo importante della comunicazione è rappresentata dall’area del vedere e dell’udire. Per ordinare le parti si osservano i personaggi che entrano ed escono di scena; il cambio di luogo e di tempo; l’attenzione ai temi trattati o appena accennati.

La struttura del brano in tre punti:

Primo quadro – La guarigione 9,1-7

vv 1-3  a) discepoli e Gesù in relazione al peccato e alla cecità

vv 4-5 b) Gesù ribadisce la sua missione di luce

vv 6-7 c) Gesù illumina il cieco e lo rende vedente.

Secondo quadro – L’interrogatorio 9,8-34 (la sezione più ampia)

vv 8-12   Interrogatorio dell’ex cieco da parte dei presenti, non bene identificati.

vv 13-17 Interrogatorio da parte dei farisei (cambio di luogo e di persone).

vv 18-23 Interrogatorio dei genitori da parte dei giudei

vv 24-34 Interrogatorio del cieco da parte dei giudei.

          Quadro conclusivo – L’epilogo 9,35-41

vv 35-38 Gesù illumina il cieco con la Parola

v 39  Gli svela la sua missione (è venuto nel mondo per provocare una scelta (crino).

vv 40-41 Il vero peccato è la cecità, ovvero la rigidità delle proprie posizioni, il non ascolto in rapporto a Gesù e alla sua opera.

Come si può notare la prima e la terza parte funzionano da cornice agli interrogatori secondo questo movimento tematico. Nel primo quadro abbiamo:

Peccato

Missione

            Illuminazione.

La conclusione – terzo quadro -ripete i temi in senso invesro rispetto all’inizio:

           Illuminazione

Missione di Gesù che provoca scelte

Peccato – cecità.

 Centrale è l’illuminazione: vedere per capire il significato.

La prima scena 1-7 descrive la trasformazione materiale del cieco in vedente, ma non ancora credente in Gesù.

La terza scena 35-41 sottolinea il vedere profondo dell’ex cieco che accoglie la rivelazione di Gesù, lo confessa e lo adora. Alla fine Gesù commenta e interpreta l’episodio, sottolineando lo scopo della sua missione e il pericolo delle scelte rigide, incapaci di aprirsi al dono della rivelazione, attraverso l’ascolto.

Al centro 8-34 l’evangelista narra gli interrogatori che delineano la posizione dei singoli personaggi. Solo il cieco interpreta la sua vicenda secondo un crescendo di apertura, e smaschera perfino l’irrigidimento dei giudei, che vorrebbero piegarlo alla loro interpretazione. L’ex cieco pagherà con l’espulsione la sua testimonianza. Una nota stilistica: nella parte centrale Gesù è assente, ma diventa il contenuto vero degli interrogatori. Nella terza scena Gesù si mostra il Buon Pastore, che raccoglie e chiama le sue pecore e le guida verso pascoli abbondanti. In tal modo l’evangelista collega e apre sul cap 10. I vari personaggi con ruoli rappresentativi sono il cieco, i discepoli, i vicini, i farisei, i giudei, i genitori, Gesù. La trama narrativa è costruita attorno ai verbi del vedere, udire e credere.

 

Nel primo quadro si discute sulla relazione peccato-cecità (vv 1-3); successivamente Gesù si definisce la Luce del mondo (vv 4-5). Egli opera finchè è giorno, poi viene la Notte. La sua opera illumina, dona la capacità di vedere (vv 6-7).

La scena si apre col vedere di Gesù e termina col vedere del cieco. Al centro l’opera e il comando di Gesù: Va’, lavati alla piscina dell’Inviato, mentre emergono i termini simbolici: il fango, l’acqua e la luce. Così la cecità e il peccato sono sciolti dall’intervento di Gesù.

 La seconda parte: gli interrogatori (8-34)

Preminenza del tema: vedere.

8-12 i vicini che l’avevano visto; la domanda: “come ci vedi?” Il cieco risponde narrando l’opera e il comando di Gesù che gli hanno permesso di recuperare la vista.

Nuovo tema: dov’è costui?

Risposta: Non lo so (è il punto di partenza del cieco circa l’identità di Gesù). L’oggetto vero degli interrogatori d’ora in poi verte sull’identità di Gesù. All’inizio il cieco non sa nulla di Lui, ma solo quello che Gesù gli ha fatto e comandato con il risultato ottenuto. Come si può notare, la narrazione passa dall’identità del cieco a chi è Gesù.

13-17 – Interrogatorio dei farisei

Ora l’evangelista annota che era Sabato quando Gesù fece il fango. Evidentemente i farisei sono sensibili a questo tipo di osservanza, incuriositi domandano come è avvenuta la guarigione e concludono: “Quest’uomo non è da Dio, perché non osserva il Sabato”. Nasce un dibattito che divide i farisei. Allora chiedono al cieco che dia la sua interpretazione. Sorpresa: il cieco dice: “E’ un profeta”. Per lui l’opera di Gesù non è incompatibile con il Sabato, anzi rivela un agire profetico.

Davanti ai Giudei (vv 18-23): il terzo movimento dell’interrogatorio

I giudei non interrogano neppure il cieco, chiamano i genitori per verificare se il cieco è il loro figlio. L’interrogatorio accerta l’identità del figlio, la modalità per cui ci vede, e per opera di chi. I genitori però non si compromettono e dicono: “Non sappiamo come sia avvenuta la guarigione (come ci vede) e chi gli abbia aperto gli occhi, sappiamo che è nostro figlio, il rimanente non lo sappiamo”; con questa risposta evitano eventuali ritorsioni.

Il quarto movimento (24-34): l’interrogatorio del cieco

Il clima è ostile, la conclusione già stabilita: i giudei “sanno che l’uomo Gesù  è un peccatore”.

Il cieco risponde: se sia peccatore non lo so, però so che ora ci vedo! Domanda: che cosa ti ha fatto? “Ve l’ho già detto e non avete ascoltato”. Poi il cieco li provoca: volete diventare suoi discepoli? La reazione dei giudei è rabbiosa: lo insultano. La chiusura è totale; le loro tesi sono preconcetti infondati e si giustificano dicendo: “ tu sei discepolo di quello, noi invece siamo discepoli di Mosè.  Costui, non sappiamo donde  sia”. Il cieco replica: siete strani. Non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi.

Al v 31 troviamo la svolta centrale. Dio ascolta chi fa la sua volontà, dice il cieco. Seguono poi delle considerazioni a sostegno della sua affermazione (32-33). La reazione dei giudei è furibonda: “vuoi farci da maestro, tu, che sei nato nei peccati? (Da notare l’nclusione inclusione coll versetto 9,2)  “E lo cacciano fuori” (9,34). Lo scontro è radicale, ora resta in campo solo il testimone cieco. Gli oppositori escono di scena. Oggetto e causa del contrasto è Gesù, la sua identità, il suo operare, la sua Parola.

La scena conclusiva porta il lettore su un piano diverso del vedere; Gesù valuta con un giudizio il percorso avvenuto: chi è capace di vedere? L’imprevedibile esito capovolge i pronostici di partenza. Giovanni è perfino ironico. Il vero miracolo consiste nel confessare, ascoltare e saper leggere che cosa fa l’Inviato di Dio per l’uomo. “Non come ti ha aguarito”, ma chi è e cosa fa Gesù! Il cammino del cieco si rivela paradigma del cammino della fede.

La cecità? Un processo complicato, reso tale dalla rigidità irrazionale di chi si ostina a non vedere e a non ascoltare (cf Gv 7-8).

Il lavoro aperto meriterebbe un’indagine sui personaggi, anche su quelli non presenti, ma citati, come Mosè e Dio e poi sui discepoli, i vicini-conoscenti, i farisei, i giudei, i genitori, il cieco e Gesù.

Il processo visivo evidenzia due cammini opposti e il rovesciamento della situazione: il cieco guarito ci vede, quelli che pensano di vedere diventano ciechi. E’ il contrasto e l’effetto tra due saperi e due modi di vedere. Gesù non è venuto per condannare (vv 3-5), ma per aiutare a far discernimento, a valutare (dal greco crino). Il cieco confessa che Gesù è profeta, i farisei accusano Gesù perché “ non è da Dio”, i giudei lo proclamano “peccatore”. Solo il cieco contesta queste conclusioni, perché Gesù gli ha aperto gli occhi. Ora la comunità cristiana si unisce al cieco e proclama: “Voi non sapete, noi invece sappiamo” (v 28.33).

Giovanni e la tradizione biblica

Due grandi episodi del Primo Testamento (tra i molti) ci aiuteranno a capire come Giovanni sia perfettamente inserito nella tradizione biblica: l’episodio di Balaam nel Libro di Numeri cap 22,22-35. L’angelo del Signore e l’asina modificano il messaggio del vedente Balaam. Egli cresce nella consapevolezza, mentre si reca al luogo dove doveva maledire Israele, ma alla fine  lo benedice, suscitando l’ira di Balac, che l’aveva chiamato e pagato.

Il secondo episodio è di Es 3,1-6: il roveto che arde. Vedere Dio dove non è abituale vederlo (in Gv 9,32: “Da che mondo e mondo non si è mai udito che uno abbia aperto gli occhi a uno nato cieco”. Il tema del fuoco che non distrugge ma respira ossigeno incuriosisce. Gli speleologi anche oggi dicono che dove si spegne il fuoco non c’è vita, perché manca ossigeno. Il fuoco che non divora è Dio, perché vede con amore la situazione degli schiavi, ascolta il loro grido e scende a liberarli: ecco il fuoco che non divora, ma è ossigeno di vita per l’uomo.

Note conclusive

La trama narrativa di Giovanni sottolinea l’importanza della simbologia visiva, del sapere e del  conoscere attraverso la quale levangelista crea l’unità del brano, rendendolo dinamico e ricco.  Luce e vista, illuminare e vedere, sapere e conoscere descrivono la persona di Gesù, la sua missione di risanatore e di rivelatore, ma anche il cammino del credente che passa dal non sapere e non vedere al conoscere, alla consapevolezza, al confessare e adorare (cf Gv 4).

Il cammino e l’effetto opposto dei vari personaggi sottolineano la sfida, la fatica del prendere posizione, la rigidità di chi resta prigioniero delle sue posizioni  o non ha il coraggio di esporsi come Nicodemo (Gv 7,50-53). Eppure Giovanni dice che anche dalle sponde dei capi è possibile compiere un cammino verso Gesù. Ancora Nicodemo 19,39: “Nicodemo, che in precedenza era andato da Gesù di notte, venne anch’egli, portando una mistura di mirra e d’aloe di circa cento libbre”.

Il tema simbolico della luce è quindi importante in Giovanni. Lo troviamo nel Prologo (1,1-18); poi compare e viene trattato in un crescendo nei cap 8,12+15-16 (l’esodo); 9,4-5+39 e 12,46-47 (la cecità). A partire dal contesto della festa delle Capanne, che ricordava l’Esodo, il dono dell’acqua (richiamata  al cap 9 – con la piscina di Siloe (l’Inviato) e la luce assumono un risalto solenne. Giovanni riprende temi cari anche a Mc 8,22-26; 10,46-52 e soprattutto all’Apocalisse. Infine il tema è vitale per l’uomo e la società, perché cecità e oscurità producono confusione e morte.

Chi è Gesù?

  • Facendo la somma dei titoli comparsi in Gv 9 e confrontandoli con Gv 4 (la Samaritana) sono elencati una serie di caratteristiche di Gesù.
  • Il Maestro. v 2
  • L’uomo detto Gesù. v 11
  • Dov’è? Non lo so. v 12
  • Questo uomo non è da Dio, dicono i farisei. v 16
  • Ma come può un peccatore fare tali cose? v 16
  • E’ un profeta dice il cieco. v 17.

Nota del narratore: chi l’avesse confessato Messia (22) sarebbe stato espulso dalla Sinagoga.

  • Ma costui non sappiamo donde sia. v 29
  • Sappiamo che Dio ascolta chi fa la sua volontà. 31
  • Questi è da Dio. 33
  • Figlio dell’Uomo. 35 – cf Libro di Daniele cap 7 e soprattutto Gv 1,51; 3,13;5,27.
  • Credo Signore. 38
  • Kirios (Signore) ,chi è? Cf 4,21-26
  • L’hai visto, è Colui che parla con te. v 37
  • Credo Signore. v 38
  • E si prostra. Ecco il punto di arrivo! v 38

C’è poi una domanda martellante: “Dov’è questo uomo, e da dove viene?” Perché non ascoltate?

Il suo agire dimostra la sua origine celeste. Chiude la sentenza il verdetto di Gesù (39-41), che dichiara  il senso della sua missione: Egli è venuto perchè l’uomo non sprofondi nell’oscurità delle sue tenebre, delle sue chiusure e del peccato.

La tensione tra il vedere e il suo significato

Proposte di laboratorio

 

L’episodio del cieco è costruito su tre campi semantici (di significato) della tradizione biblica molto vasti: visione – peccato – conoscere-udire (in Gv 9: “Noi sappiamo”).

Di solito questi temi disegnano il cammino della fede e operano uno spostamento dal vedere- conoscere al sapere-udire-credere.

Il tema del peccato evocato all’inizio da Giovanni allude a una concezione popolare molto diffusa, che Gesù smentisce: Egli rompe la dialettica rigida di causa effetto (Gv 9,2). La concezione giovannea del peccato è più profonda e consiste nel rifiuto alla rivelazione del Figlio di Dio, inviato dal Padre (Gv 9,41). Il Prologo già lo anticipava e lo declinava: “tutto è stato fatto per mezzo di Lui, ma l’uomo non lo riconobbe; venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”.

Questo dramma, attraversa l’intera bibbia ed è particolarmente sottolineato dai profeti:

Is 1,2-3: “Udite, o cieli! E tu, terra, presta orecchio! Poiché il SIGNORE parla:
«Ho nutrito dei figli e li ho allevati,ma essi si sono ribellati a me.

 Il bue conosce il suo possessore,e l’asino la greppia del suo padrone,
ma Israele non ha conoscenza,il mio popolo non ha discernimento».

 Is 6,9-10: Ed egli disse: «Va’, e di’ a questo popolo:”Ascoltate, sì, ma senza capire;guardate, sì, ma senza discernere!” 

Rendi insensibile il cuore di questo popolo,rendigli duri gli orecchi, e chiudigli gli occhi,in modo che non veda con i suoi occhi, non oda con i suoi orecchi,non intenda con il cuore, non si converta e non sia guarito!

 Ger 2,1-13: “vv 12-13: O cieli, stupite di questo; inorridite e restate attoniti», dice il SIGNORE.
«Il mio popolo infatti ha commesso due mali:ha abbandonato me, la sorgente d’acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua”.

Nel brano di Gv 9, le autorità accusano Gesù di non essere da Dio, ma di essere un peccatore, perché non osservava il sabato. La conclusione dell’episodio del cieco riporta la valutazione di Gesù che rivela la rigidità dei giudei. Una chiusura che li inchioda nella dimensione stabile di peccato (9,41). All’inizio i discepoli chiedono a Gesù chi ha peccato, alla fine troviamo la rivelazione di Gesù: coloro che presumono di vedere e giudicano gli altri.

 Una domanda. Chi vede realmente? Come vedere?

Spostando oggi il problema in campo sociale-religioso: chi viola i diritti della persona conosce Dio? Vede chiaramente? Perché l’uomo vede solo i propri privilegi, dai quali nasce un campo vasto di opere malvage? La pretesa del sapere condiziona anche il vedere, il capire la realtà. Questa pretesa diviene la propria condanna.

Dialettica tra visibilità e non visibilità, tra affermazione e negazione

Questa tensione è riproponibile nel cammino di fede e presenta una miriade di espressioni che non sono facili da cogliere al di fuori di un contesto. Nel brano giovanneo di fronte all’evidenza del cieco diventato vedente, si impone la negazione della comprensione riguardo la persona e l’operato di Gesù, infatti l’elite religiosa dice: non è da Dio perchè non osserva il sabato. Tu invece dà gloria a Dio per la vista ritrovata, e non a lui che è un peccatore. Così i giudei giungono alla conclusione opposta del cieco divenuto vedente, mentre i vedenti diventano ciechi. Essi negano l’evidenza del Segno, ossia il suo significato e messaggio profondo. Occorre dunque superare ciò che fa da schermo. Questa tema ricorda e riprende:

Is 6,9-10: vedi sopra.  Un testo ricordato da tutti i Vangeli per esempio

Mt 13,14-17: “ Così si avvera per loro la profezia di Isaia che dice
Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete;
guarderete con i vostri occhi e non vedrete;
 perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile:
sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, per non rischiare di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi, e di comprendere con il cuore e di convertirsi, perché io li guarisca
“. Ma beati gli occhi vostri, perché vedono; e i vostri orecchi, perché odono!  In verità io vi dico che molti profeti e giusti desiderarono vedere le cose che voi vedete, e non le videro; e udire le cose che voi udite, e non le udirono”.

Anche Giovanni  (12,37-50),  chiudendo  il libro dei Segni riprende ancora Is 6,9-10: (vedi sopra)

Al termine della sua missione Att 28,25-27 Paolo cita il testo isaiano per spiegare l’ostilità incontrata durante la sua opera di missionario. Ci sono altri testi che ripropongono il tema del vedere e del capire.

Nel libro di Giobbe – cap 28 –  l’autore anonimo ammira le capacità dell’uomo di trasformare la materia, procurarsi i beni della vita, ma non conosce il luogo dove si trova la Sapienza. L’uomo la può ricevere solo dalla Rivelazione. La Sapienza poi orienta le sue scelte.  E al cap 38,19: “Dov’è la via in cui abita la luce? E dove il luogo delle tenebre?”

L’accusa dei profeti si fa ancora più tagliente, denunciando che il non vedere porta all’idolatria, imprigiona l’uomo nei falsi assoluti. Di qui la messa in guardia di fronte alla fragilità del vedere umano e la necessità di purificare i percorsi del vedere, per giungere al significato valido e autentico.

Si opera così lo spostamento dal vedere  all’udire-ascoltare

Il testo di Gv  9 e la conclusione del libro dei Segni (12,37-50) sono messaggi importantissimi perché mostrano la tensione tra vedere e rivelare: per approdare alla confessione non è sufficiente il vedere materiale. Vedere Gesù nel suo Mistero profondo necessita ascoltare la sua Parola. Il messaggio giovanneo è perfettamente in linea con la tradizione biblica, e poiché i giudei ricordano che Dio ha parlato a Mosè sarà importante rivisitare il brano del roveto, Es cap 3,1-6.

Mosè si avvicina per vedere, ma alla fine ciò che è decisivo è l’ascoltare. Bisogna avvicinarsi per vedere. Vedere è la prima chiamata, la prima sollecitazione. Poi è necessario purificare il cammino: togliersi i sandali, coprirsi il volto (ossia non guardare più con gli occhi, ma vedere con le orecchie, con l’udire) per prendere coscienza di Colui che ci parla e si rivela. Il cieco è il testimone della tradizione ebraica fondata in Abramo e Mosè.

Il brano di Gv 9 mette in evidenza l’acutezza di Giovanni, annotando che il gesto di Mosè è smentito dal comportamento dei giudei. Il brano dell’Esodo si può definire come la simbolica della visione illuminata. Se guardiamo attentamente, il cieco compie esattamente questo percorso e Giovanni, narrandolo, riprende il caposaldo della Rivelazione ebraica che ora si compie in Gesù, rivelatore del Padre (1,18). Nell’Esodo, attraverso la Parola, JHWH si fa conoscere a Mosè come il Dio dei Padri, che vede le sofferenze del popolo e lo vuole liberare. Attraveso i segni operati da Gesù e illuminati dalla sua Parola, il cieco e il discepolo possono giungere alla fede in Lui: “Chi è Signore, perché io creda in lui?” Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è Colui che parla con te”. Credo Signore! (9,36).

Questo cammino non rievoca episodi passati, ma affronta il tema fondamentale dell’uomo, quello che in modo tecnico è stata chiamata la “visione contraddetta”, la dialettica dell’ideale intravisto: del vedere iniziale e il cammino della vita che può smentirlo. L’uomo sogna ma con le scelte miopi può annullare tutto e dirigersi all’opposto. Un operato fatale che può essere interrotto solo per grazia, cioè l’opera dell’Inviato. Se Dio non avesse accompagnato Giacobbe, che ne sarebbe stato della sua visione? (Gen 28,10-22). Se Dio non avesse rilanciato Israele, grazie alla sua promessa che ne sarebbe stato del suo futuro? (Rm 11,32). Se  l’uomo non accoglie l’opera dell’Inviato che cosa può costruire con le sue mani?

Il Vangelo senza mezzi termini dice: “Una visione contraddetta”, un sogno annullato da un cammino opposto. Ecco il contenuto vero del peccato, che Gesù denuncia e guarisce per rilanciare il cammino dell’uomo verso un futuro di pienezza donato da Dio (cf. R. Fornara, La visione contraddetta, Roma 2004).

Dio rimane l’ossigeno per l’uomo e il suo inviato è il fuoco che non si può imbrigliare perchè scioglie finalmente l’enigma del peccato umano.

Bibliografia di riferimento

AA.VV., Lessico ragionato dell’esegesi biblica, Queriniana 2006.

  1. E. Brown, La comunità del discepolo prediletto. Cittadella editrice. 1982
  2. Brown, Il Vangelo e le lettere di Giovanni, Queriniana 1994.

M Caurla, Il cieco illuminato e i vedenti accecati di fronte alla luce di Cristo, Editrice P.U.G 2015.

X.L. Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, San Paolo 2007.

J.P.Fokkelman, Come leggere un racconto biblico, guida pratica alla narrativa biblica, EDB 2002.

R Fornara, La visione contraddetta. An. Bib. N155 Roma 2004

  1. Henrici, Guida pratica allo studio, E.PU.G., Roma 1997.
  2. Hermans, P. Sauvage (a cura di), Bibbia e Storia, EDB 2004.
  3. Maggioni, Attraverso la Bibbia, Un cammino di iniziazione, Cittadella 2003.
  4. Marguerat-Y. Bourquin, Per leggere i racconti biblici, Borla 2001.
  5. Marguerat e A. Wénin, Sapori del racconto biblico, EDB 2013.

Mlaknzhyl,  citato da M Caurla; La disposizione cristocentrica, Analecta Biblica, n 117, 1987.

Marchadour, I personaggi del Vangelo di Giovanni, EDB 2007

Pontificia commissione biblica (AA.VV.) L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, ELLEDICI 1998.

  1. L. Ska, I nostri padri ci hanno raccontato, Introduzione all’analisi dei racconti dell’Antico Testamento, EDB 2012.
  2. Vignolo, Personaggi del Quarto Vangelo, Glossa 1994-