Lo sguardo profetico dei cristiani

Terza Lectio di Avvento 2016 – Firmino Bianchin

Lavoro, povertà, solidarietà, Eucarestia, Liturgia delle Ore, condivisione dei valori

(Cf. B. Calati, Il primato dell’amore, pp 15-25)

  1. B. Calati porta l’attenzione sulla luce delle Scritture Sante, sulla grande tradizione patristica e sul dialogo col mondo, sulla necessità della riscoperta della verginità e del matrimonio come volti dell’amore. Valori resi vivi dalla lectio, dall’aggiornamento teologico, per non finire nelle derive ambigue della mondanità liberista e parossistica del facile erotismo, incentivato anche dall’eccessivo puritanesimo legalista, che ha imperversato nell’educazione cristiana. Calati definisce questa tradizione fatta di discipline più che di educazione globale della persona come un “retaggio arcigno e maledetto”. Quello che è mancato e manca è la formazione sapienziale permanente, alla luce della rivelazione, della quale il priore sottolineava prima di tutto l’importanza dello Spirito Santo, nella dimensione dialogica relazionale trinitaria e di riflesso in quella antropologica (Vedi il Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qoelet, Ester e il NT, in particolare la tradizione giovannea.

Povertà e lavoro insieme alla preghiera e alla comunione, costituiscono le coordinate fondamentali dell’identità cristiana e monastica. Anche questi valori ci giungono da tradizioni spirituali ambigue e riduttive, che hanno privato il cristianesimo dell’afflato profetico. I Padri antichi erano aderenti al progetto divino dell’incarnazione: il Verbo si fece carne e si manifestò per trent’anni come il figlio del falegname. Nella Scrittura non ci sono modelli intimistici come quelli favoriti dal pietismo religioso della devotio moderna.

La povertà non si risolve in miseria, in sottosviluppo e degrado. La povertà biblica è sobrietà, solidarietà, liberazione da accentramenti di capitali che generano ingiustizia, è garanzia da affanni e alienazione di un lavoro schiavizzante. Il lavoro come è proposto dalla Bibbia ci pone in tensione verso la pienezza, perché associa l’uomo all’operosità divina che sa creare e donare. Dio ci vuole suoi collaboratori; affida all’uomo il compito del lavoro perché diventi artefice di progresso, di promozione sociale. La povertà ha molte sfaccettature, e può degenerare in miseria, in privazione di diritti, in degrado e sottosviluppo (cf Laudato si, nn 43-54) e colpisce in modo speciale i più deboli, ma questo è frutto dell’uomo peccatore.

  1. a) La santificazione dell’impegno umano- T. De Chardin (L’ambiente divino, ed. Queriniana, 2003)

Non penso di esagerare affermando che, per i nove decimi dei cristiani praticanti, il lavoro umano resta allo stato di «impaccio spirituale». Nonostante la pratica della retta intenzione e della giornata quotidianamente offerta a Dio, la massa dei fedeli cova oscuramente l’idea che il tempo trascorso in ufficio, nel proprio studio, nei campi o nella fabbrica sia sottratto all’adorazione. Certo, è impossibile non lavorare. Ma è anche impossibile proporsi quella profonda vita religiosa riservata a coloro che hanno il tempo di pregare o predicare tutto il giorno. Nella vita, alcuni minuti possono essere recuperati per Dio. Ma le ore migliori sono sperperate o per lo meno svalorizzate dalle cure materiali. – Oppressi da questo sentimento, moltissimi cattolici conducono in realtà una doppia vita, o una vita impacciata: hanno bisogno di abbandonare la veste umana per ritenersi cristiani, e solo cristiani di secondo ordine.

Dopo quanto abbiamo detto delle divine estensioni e delle divine esigenze del Cristo mistico od universale, appaiono manifeste l’inanità di quelle impressioni e la legittimità della tesi, così cara al Cristianesimo, della santificazione del dovere del proprio stato. Certo, nelle nostre giornate, esistono minuti particolarmente nobili e preziosi, quelli della preghiera e dei sacramenti. In mancanza di quei momenti di contatto, più efficaci o più espliciti, il fluire dell’onnipresenza divina e la visione che ne abbiamo ben presto s’indebolirebbero, sino a che la nostra più fervida diligenza umana, senza essere del tutto perduta per il Mondo, resta per noi privata di Dio. Ma, riservata gelosamente questa parte alle relazioni con Dio incontrato, se oso dire, «allo stato puro» (cioè allo stato di Essere distinto da tutti gli elementi di questo Mondo), come temere che l’occupazione più banale, più assorbente oppure più affascinante, ci costringa ad uscire da Lui? – Ripetiamolo: in virtù della Creazione e ancor più dell’Incarnazione, niente è profano quaggiù per chi sa vedere. Invece, tutto è sacro per chi sa distinguere, in ogni creatura, la particella di essere eletto sottoposta all’attrazione del Cristo in corso di compimento. Con l’aiuto di Dio, riconoscete la correlazione, anche fisica, che collega il vostro lavoro all’edificazione del Regno Celeste, vedete lo stesso Cielo che vi sorride e vi attrae attraverso le vostre opere; e, nel lasciar la Chiesa per la città rumorosa, non avrete altro che la sensazione di continuare ad immergervi in Dio. Se il lavoro vi sembra insipido od estenuante, cercate rifugio nell’interesse riposante e inesauribile di progredire nella vita divina. Se vi appassiona, trasferite nell’anelito di Dio, da voi meglio conosciuto e desiderato sotto il velo delle opere, lo slancio spirituale che la Materia vi comunica. Mai, in nessun caso, «sia che mangiate o che beviate», acconsentite a fare checchessia senza averne riconosciuto prima e senza averne ricercato poi tutto il significato ed il valore positivo in Christo Jesu. Questa non è soltanto una lezione di salvezza qualunque; è, secondo lo stato e la vocazione di ognuno, la stessa via della santità. Infatti, per una creatura, cosa significa essere santa, se non aderire a Dio al massimo delle proprie possibilità? – e che cosa significa aderire a Dio al massimo grado se non adempiere, nel Mondo organizzato attorno al Cristo, la funzione precisa, umile od eminente, alla quale, per natura e per sovranatura, essa è destinata?

Nella Chiesa, vediamo diversi gruppi i cui membri si dedicano alla pratica perfetta di questa o di quella virtù particolare: misericordia, distacco, splendore dei riti, missione, contemplazione. Perché non vi potrebbero essere anche uomini votati al compito di dare, con la loro vita, l’esempio della santificazione generale dello sforzo umano? – uomini il cui ideale religioso abituale sarebbe quello di dare completa e cosciente esplicitazione alle possibilità od esigenze divine racchiuse in una qualsiasi occupazione terrestre? – in breve, uomini che, nei campi del pensiero, dell’arte, dell’industria, del commercio, della politica ecc…, si dedicassero a compiere, con lo spirito sublime richiesto, le opere fondamentali che costituiscono la stessa ossatura della società umana? Attorno a noi, i progressi ‘naturali’ di cui si alimenta la santità di ogni secolo nuovo, sono troppo spesso abbandonati ai figli della Terra, cioè agli agnostici o agli atei. Certo, senza pensarvi o senza volerlo, costoro collaborano al Regno di Dio e al compimento degli eletti: i loro sforzi, superando o correggendo intenzioni imperfette o cattive, sono recuperati da Colui «la cui Energia è in grado di sottomettersi tutto». Ma non si tratta, ovviamente, che d’una soluzione di ripiego, d’una fase provvisoria nell’organizzazione delle attività umane. Dalle mani che l’impastano sino a quelle che la consacrano, la grande Ostia universale dovrebbe essere preparata e maneggiata solo con adorazione.

Oh! venga il tempo in cui gli Uomini, diventati coscienti dello stretto legame che associa tutti i movimenti di questo Mondo nell’unica opera dell’Incarnazione, non potranno più dedicarsi ad alcun compito senza illuminarlo con la prospettiva precisa che il loro lavoro, per quanto elementare sia, è raccolto e utilizzato da un Centro divino dell’Universo! Allora, veramente, ben poco separerà la vita del chiostro da quella laicale. E solo allora l’azione dei figli del Cielo (assieme all’azione dei figli del Secolo) avrà raggiunto la pienezza desiderabile della sua umanità.

  1. b) L’umanizzazione dell’impegno cristiano

La grande obiezione del nostro tempo contro il Cristianesimo, la vera fonte delle diffidenze che rendono impermeabili all’influsso della Chiesa intere masse dell’Umanità, non sono precisamente delle difficoltà storiche o teologiche. È il sospetto che la nostra religione renda i suoi fedeli inumani. «Il Cristianesimo – pensano talvolta i migliori tra i Gentili – è cattivo o inferiore perché non conduce i propri adepti oltre l’Umanità ma fuori o a lato di essa. Li isola anziché immetterli nella massa. Li disinteressa anziché applicarli al compito comune. Dunque non li esalta: ma li indebolisce oppure li guasta. Del resto, non lo confessano forse essi stessi? Quando, per caso, un loro religioso, un loro sacerdote, si dedica a ricerche cosiddette profane, il più delle volte, prende ben cura di far presente che si adatta a queste occupazioni di second’ordine solo per conformarsi a una moda o ad un’illusione, tanto per dimostrare che i cristiani non sono i più stupidi tra gli uomini. In definitiva, quando un cattolico lavora con noi, abbiamo sempre l’impressione che lo faccia senza sincerità, per condiscendenza. Sembra interessarsi. Ma, in fondo, per via della sua religione, non crede allo sforzo umano. Il suo cuore non è più con noi. Il Cristianesimo genera disertori e traditori: ecco ciò che non possiamo perdonargli».

Questa obiezione, mortale se corrispondesse alla verità, l’abbiamo messa in bocca a un non credente. Ma non risuona forse, qua e là, nelle anime più fedeli? A quale cristiano, accorgendosi della sorta d’isolante o di ghiaccio che lo separava dai suoi compagni non credenti, non è forse accaduto di chiedersi con preoccupazione se non sbagliasse strada e se non avesse effettivamente perso il filo della grande corrente umana?

Ebbene, senza negare che (ben più con le parole che con gli atti) taluni cristiani si espongono al rimprovero d’essere, se non ‘nemici’, per lo meno ‘stanchi’ del genere umano, noi possiamo affermare, dopo ciò che abbiamo appena detto sul valore sovrannaturale dell’impegno terrestre, che l’atteggiamento di quelle persone è dovuto a un’incompleta comprensione, e non già ad una certa qual perfezione, della religione.

Noi disertori? Noi scettici circa il valore del Mondo tangibile? Noi disgustati del lavoro umano? Ah! quanto poco ci conoscete… Ci sospettate di non partecipare alle vostre ansie, alle vostre speranze, alle vostre esaltazioni nel penetrare i misteri e nel conquistare le energie terrestri. «Siffatte emozioni, dite voi, potrebbero essere condivise soltanto da coloro che lottano insieme per l’esistenza: ora, voialtri cristiani, vi professate già salvati». Come se, per noi, altrettanto e ben maggiormente che per voi, non fosse una questione di vita o di morte che la Terra abbia successo fin nelle sue potenzialità più naturali! Per voi (e davvero in questo caso non siete ancora abbastanza umani, non amate cioè sino al punto estremo della vostra umanità) si tratta solo del successo o dello scacco d’una realtà che, anche se concepita sotto l’aspetto di una qualche super-umanità, rimane vaga e precaria. Per noi, invece, in un senso vero, si tratta proprio del compimento del trionfo d’un Dio. C’è una cosa infinitamente deludente, ve lo concedo: è che, troppo poco coscienti delle responsabilità ‘divine’ della loro vita, tanti cristiani vivono come gli altri uomini, in uno sforzo dimezzato, senza conoscere il pungolo o l’ebbrezza del Regno di Dio da promuovere in tutti i campi dell’attività umana. Ma abbiate la cortesia di criticare qui solo la nostra debolezza. In nome della nostra Fede, abbiamo il diritto e il dovere d’appassionarci alle cose della Terra. Come voi, e persino meglio di voi (perché, di noi due, solo io posso prolungare sino all’infinito, conformemente alle esigenze del mio più intimo volere, le prospettive del mio impegno), voglio votarmi, corpo ed anima, al sacro dovere della Ricerca. Sondiamo tutte le barriere. Tentiamo tutte le strade. Scandagliamo tutti gli abissi. Nihil intentatum … Lo vuole Dio, che ha voluto averne bisogno. – Siete uomini? « Plus et ego ».

«Plus et ego». Non v’è dubbio. In questo tempo che vede il risveglio legittimo, in un’Umanità in procinto di diventare adulta, della coscienza della sua forza e delle sue possibilità, uno dei primi doveri apologetici del cristiano sta nell’indicare, con la logica delle sue prospettive religiose e ben di più con quella del suo agire, come il Dio incarnato non sia venuto per sminuire in noi né la magnifica responsabilità, né la splendida ambizione di farci noi stessi . Ancora una volta « non minuit, sed sacravit ». No, il Cristianesimo non è, come lo si rappresenta o talvolta lo si pratica, un sovraccarico di pratiche e obblighi che appesantiscono, aumentano l’onere già così gravoso o moltiplicano i vincoli, già così paralizzanti, della vita sociale. Esso è, in verità, un’anima potente, che conferisce significato, fascino e nuova scioltezza a quanto già facevamo. Ci orienta, certo, verso vette impreviste. Mala salita che a queste conduce, è tanto ben correlata a, quella che stavamo naturalmente già percorrendo che, nel cristiano, niente è più decisamente umano (è quello che dovremo ora esaminare) del suo stesso distacco.

  1. Il distacco mediante l’Azione

Quanto abbiamo testé esposto circa la divinizzazione intrinseca dello sforzo umano non pare discutibile tra i cristiani, poiché, per stabilirlo, ci siamo limitati ad assumere nel loro giusto rigore, e a confrontare tra loro, alcune verità teoretiche o pratiche riconosciute da tutti.

Tuttavia, certi lettori, senza trovare alcun difetto preciso al nostro ragionamento, si sentiranno forse vagamente disorientati o preoccupati di fronte a un ideale cristiano in cui è data tanta importanza alla cura dello sviluppo umano e alla ricerca di miglioramenti terrestri. Abbiano la cortesia di non dimenticare che abbiamo sinora percorso solo la metà della strada che conduce al Monte della Trasfigurazione. Sin qui, ci siamo occupati solo della parte attiva delle nostre esistenze. Tra breve, e cioè nel capitolo dedicato alle passività ed alle diminuzioni, si scopriranno con maggior ampiezza le braccia dominatrici della Croce. Osserviamo però che, nell’atteggiamento così ottimistico, così liberatorio di cui abbiamo or ora abbozzato i lineamenti, si nasconde ovunque una vera e profonda rinuncia. Colui che si dedica al compito umano, secondo la formula cristiana, sebbene possa esternamente apparire come immerso nelle cure della Terra, è, sin nell’intimo, un essere profondamente distaccato.

In sé, per intrinseca natura, il lavoro è un fattore molteplice di distacco per coloro che vi si dedicano senza ribellione, con fedeltà. In primo luogo, implica lo sforzo, la vittoria sull’inerzia. Per quanto interessante sia (quanto più spirituale è, potremmo dire), il lavoro è un parto doloroso. L’uomo sfugge alla terribile noia del dovere monotono e banale soltanto per fronteggiare le ansie e la tensione interna della ‘creazione’. Creare, o organizzare, energia materiale, verità o bellezza, rappresenta un intimo tormento, per cui chi vi si avventura è distolto dalla vita tranquilla e ripiegata su di sé, in cui sta proprio il vizio dell’egoismo e dell’attaccamento. Per essere un buon operaio della Terra, l’uomo, non solo deve abbandonare una prima volta la tranquillità ed il riposo, ma deve anche saper continuamente abbandonare le forme iniziali della sua industriosità, della sua arte, del suo pensiero, per conseguire risultati migliori. Fermarsi nel godimento, nel possesso, sarebbe una colpa contro l’azione.

Ancora e sempre, bisogna superare se stessi, lasciare dietro di sé ad ogni momento le più care idee appena abbozzate. – Ora, seguendo questa strada, non poi tanto diversa dalla via regale della Croce, come potrebbe sembrare a prima vista, il distacco non consiste semplicemente nella sostituzione continua di un oggetto con un altro oggetto dello stesso ordine, – come i chilometri succedono ai chilometri su una strada piana. In virtù di una meravigliosa potenza ascensionale inclusa nelle cose (l’analizzeremo più dettagliatamente quando parleremo della «potenza spirituale della Materia»), ogni realtà raggiunta e superata ci permette di scoprire e di perseguire un ideale di più elevata qualità spirituale. A chi dispiega adeguatamente la vela al soffio della Terra, si rivela una corrente che lo costringe ad inoltrarsi sempre più in alto mare. Più le aspirazioni e le azioni d’un uomo sono nobili, più questi diventa avido di fini grandi e sublimi da conseguire. Ben presto non gli bastano più la sola famiglia, la sola patria, il solo aspetto remunerativo della sua azione. Avrà bisogno di creare delle organizzazioni generali, di aprire vie nuove, di sostenere delle Cause, di scoprire delle Verità, di nutrire e di difendere degli Ideali. – Così, gradualmente, l’operaio della Terra cessa di appartenere a se stesso. A poco a poco, il grande soffio dell’Universo, insinuatosi in lui attraverso la fessura d’un agire umile ma fedele, lo ha dilatato, sollevato, trascinato.

Nel cristiano, purché sappia usare in modo conveniente le risorse della propria fede, tali effetti raggiungono il culmine e il coronamento. L’abbiamo visto: rispetto alla realtà, alla precisione, allo splendore del fine ultimo cui dobbiamo mirare anche con il più infimo nostro atto, noi, discepoli del Cristo, siamo i più fortunati tra gli Uomini. Il cristiano riconosce come sua la funzione di divinizzare il Mondo in Gesù Cristo. In lui dunque, il processo naturale, che spinge l’azione umana da un ideale all’altro, verso oggetti sempre più consistenti ed universali, raggiunge, grazie alla Rivelazione, il totale compimento. Di conseguenza, in lui il distacco mediante l’azione deve conseguire il massimo della sua efficacia. E ciò è perfettamente vero. Così come lo abbiamo concepito in queste pagine, il cristiano è ad un tempo l’uomo più dedito e distaccato che esiste. Convinto, più di un qualsiasi ‘mondano’, del valore e dell’interesse insondabili nascosti nel benché minimo successo terreno, è nel contempo persuaso, alla pari di un qualsiasi anacoreta, della fondamentale nullità di ogni risultato inteso semplicemente come vantaggio individuale (anche universale) all’infuori di Dio. Egli cerca Dio e solo Dio, attraverso la realtà delle creature. Per lui, l’interesse è veramente nelle cose, ma in assoluto subordine alla presenza di Dio in esse. Per lui, la luce celeste diventa tangibile e raggiungibile nel cristallo degli esseri; ma desidera solo la luce; e se la luce si spegne perché l’oggetto è spostato, superato, oppure se ne va, anche la sostanza più preziosa non diventa che cenere ai suoi occhi. Così, ‘sin nel proprio intimo e negli sviluppi più personali che si procura, non cerca se stesso ma il più Grande di sé, al quale sa di essere destinato. Davvero, al proprio sguardo, non conta più; non esiste più; si è dimenticato e perso nello stesso sforzo del perfezionamento. Non è più l’atomo che vive, è l’Universo che vive in lui.

Non solo ha incontrato Dio nell’intero campo delle proprie attività tangibili. Ma, in questa prima fase del suo sviluppo spirituale, l’Ambiente divino da lui scoperto assorbe le sue intime potenzialità nella stessa proporzione in cui queste conquistano più faticosamente la loro individualità[1].

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Il lavoro se non è collegato con la ricerca della Sapienza e della dimensione etica finisce per essere condanna, non senso, ingiustizia, stravolgimento del creato (cf Laudato si). Il senso ultimo della realtà e del destino umano non viene semplicemente dal lavoro, ma da Dio che dona un legame di venerazione amante per allontanare l’uomo dal male. Sapienza e venerazione non vengono dalla tecnologia

(Lettura: Libro di Giobbe, cap 28 (Traduzione di G. Borgonovo – Bibbia Mondadori, Vol III, pp 66-67).

L’uomo, nel creato, ha una capacità unica di trasformare la materia, di scoprire e di procurarsi i beni per la vita. Dio possiede la sapienza, e la dona all’uomo nel dialogo per orientarlo alla risposta etica.

GS Proemio. – La comunione: condivisione di ideali e di beni.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.

La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.

Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.

L’intuizione del Concilio: Dio ha un progetto universale di fraternità nell’unica figliolanza. Le fonti bibliche del Concilio sono l’intera rivelazione: dalla dispersione di Babele imperialista alla chiamata di Abramo. Lungo tutto il pellegrinaggio Dio tesse la fraternità del popolo, che ha come missione vivere e irradiare la benedizione della fraternità universale, realizzata e resa operante in pienezza dal Messia Pasquale.

Nella Lettera a Ef 2,15 si legge: “per creare in se stesso, dei due (le frammentazioni umane) un solo uomo nuovo”. “Non più giudeo, greco, schiavo, libero, maschio o femmina, ma tutti siete uno in Cristo Gesù”, appartenenti a Cristo, discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa (Gal 3,28-29).

In Ef 2,1-22 Paolo, o la sua scuola, elaborano una pagina di grande valore profetico rileggendo la missione di Gesù. Cristo abbatte i muri costruiti dalla carne (2,14), per creare in se stesso, dalle ceneri delle divisioni, un solo uomo nuovo. Il movimento è dalle divisioni all’unità paragonata alla Nuova creazione (per creare in sé – Ef 2,15). Cristo ha lo stesso compito del Dio creatore, e porta a compimento la prima creazione facendola approdare alla pace di Dio (Shalom). Paolo sancisce una cristologia creatrice. Cristo riuscirà a trarre dalle forze negative delle acque primordiali una originale umanità, ancora sconosciuta per la storia umana, denominata “un solo uomo Nuovo”, vera immagine di Dio che finalmente gli assomiglia (Gen 1,26). Si noti la forza rappresentativa dell’intuizione paolina sulla creazione nuova di umanità e del suo habitat (cf GS n 39. L’uomo nuovo nella comunione sono i “cittadini del cielo”, opera del Vangelo finalmente assimilato e realizzato (Fil 1,27; 3,20).

Cittadini del vangelo per diventare cittadini del cielo sono concetti dinamici di cammino – pellegrinaggio di Koinonia, per tessere la fraternità sognata da Dio. Si veda anche 1Cor 1,9: “Dio è fedele e vi ha chiamati alla koinonia col Figlio suo Gesù Signore nostro; e in 1Cor 10,16: “Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi rompiamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo?

“Mangiare e bere sono contenuti densi di vita e stabiliscono una relazione vitale. Paolo parla del cibo pasquale del pellegrinaggio. Si tratta di affermazioni irriducibili, il cui significato interpella il credente. Dio ci dona un legame eterno di relazione, lungo il pellegrinaggio, per vivere relazioni nuove orizzontali. La comunità cristiana pone alla base l’educazione alla koinonia espressa e ricevuta nella celebrazione eucaristica e nel prolungamento della Liturgia delle Ore.

Non cediamo al ritualismo cerimoniale. Questa centralità non è un fatto a cui abituarci. Cosa fare, dice B. Calati, perché queste azioni comunitarie importanti (Eucarestia, Liturgia delle Ore), siano presenti nella ferialità del nostro cammino di fede e trasformino la vita in offerta reale? La preghiera, la liturgia inverano la storia della salvezza, la producono e la rendono irradiante.

Regola di S. Benedetto, cap 72

Lo zelo buono che i monaci devono coltivare

1Come vi è uno zelo amaro e cattivo che allontana da Dio e conduce all’inferno, 2così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore. 4Essi dunque «gareggino reciprocamente nel rendersi onore» (Rm 12,10); 5sopportino con la più grande pazienza le infermità fisiche e morali dei fratelli; 6facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; 7non cerchino il proprio vantaggio, ma quello altrui; 8manifestino con cuore puro carità fraterna; 9temano Dio con amore; 10amino l’abate con affetto umile e sincero; 11non antepongano assolutamente nulla a Cristo, 12 il quale ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Nel percorso della Regola, il n 72 fa emergere i frutti della “scuola del servizio del Signore” (cf Prologo v 45), verso cui ogni monaco – discepolo di Gesù – deve tendere (cf n 43), nutrendosi nella Liturgia (n 43,3) e raggiungere la Sapienza donataci nelle Scritture Sante (cf n 73).

 

Si veda anche scheda su: Il lavoro: condanna o benedizione?

Il senso ultimo del lavoro

 

[1] Pierre Teilhard de Chardin, L’Ambiente Divino , tr. it a cura di Annetta Dozon Daverio e Fabio Mantovani, Queriniana, Brescia 2003, pp. 28-46.

 

 

Il lavoro: condanna o benedizione?

Firmino Bianchin

 

Non è facile condensare in un incontro il tema del lavoro a partire dalla Rivelazione. Il compito primario non è quello di ricette per i nostri problemi, perché l’incontro con la Parola non è strumentale, ma dialogico. Lo scopo dell’ascolto sarà raggiunto se riusciremo ad entrare, o perlomeno a fare un passo di avvicinamento verso il disegno di Dio ed appropriarci delle sue valutazioni dal momento che Egli ha voluto associare l’uomo alla sua operosità. La lettura della Parola diviene un esercizio di senso per attivare la visione armonica e sapienziale. La Bibbia va accostata come un tutto unitario (DV 12); dall’inizio, con le sue pagine sulla creazione (l’opera di Dio e la collaborazione umana), fino al risultato finale di cieli nuovi e terra nuova (Ap 21,10). In mezzo, il cammino evolutivo dell’universo e soprattutto quello dell’uomo con il suo lavoro, per approdare alla meta luminosa e trasfigurata (GS 39).

 

La Parola ci accompagna facendoci conoscere il progetto esaltante di Dio e rendendoci partecipi della sua stessa condizione di vita (DV 2; Ef 2,18). Volendoci collaboratori, Dio si fida di noi e nello stesso tempo rischia molto; la narrazione biblica e le pagine della storia non  smentiscono l’instabilità del patto associativo di Dio con l’uomo nell’occuparsi dell’universo. A partire dalla Scrittura santa è possibile cogliere ciò che è costitutivo e di primaria importanza per la via umana; un’ampia prospettiva di speranza per la storia del mondo e dei popoli; un divenire grandioso nel quale i valori del lavoro, del progresso, della giustizia e della solidarietà saranno possibili.

Dobbiamo convincerci che Dio vuole questa meta ed essa ci impegna nell’esercizio del discernimento perché fiorisca un’umanità vera non più vittima dell’egoismo e dell’avarizia. Le azioni intraprese non esauriranno mai il progetto di lavoro per una equa e giusta politica economica e sociale a respiro universale, fondamento della pace e dello sviluppo con le sue implicazioni religiose. Sarà importante verificare di continuo se stiamo facendo un lavoro valido di perfezione progressiva, attraverso una storia sensata in cui operare progressivamente la messa in prospettiva di Dio, dell’uomo e del cosmo. Per questa appropriazione multiforme dell’umano occorre tempo, impegno generoso ed onesto e preghiera, come dice il Salmo 137/138: “Dio porta a compimento ciò che ha cominciato in noi e non abbandonare l’opera delle tue mani”.

 

Leggeremo ascoltando: un buon lettore affina l’attenzione e la disponibilità. Non ascoltiamo semplicemente  una voce, bisogna coinvolgerci in una relazione. Il testo ci presta la voce, ci svela il cuore, le intenzioni, i progetti come voce di silenzio che si apre (qol de mama daqqa – 1Re 19,12).

 La dimensione sociale del lavoro

e il suo rapporto necessario con la Sapienza

 Difficoltà e successi della modernità e post moderno.

L’estensione delle capacità tecniche dell’uomo ha provocato disuguaglianze sociali sempre maggiori e la duplice gestione del lavoro e del denaro, oltre agli innegabili vantaggi, ha contribuito alla crescita dell’ingiustizia e della violenza. L’affermarsi del potere umano sembra svuotare la relazione con il sovrannaturale e la preoccupazione delle mete ultime è divenuto un tema a cui pochi si interessano. C’è il rischio di un ritorno ad una religione fondata sulla paura, ancorata al passato e quello di abbandonarsi alla dinamica atea di un progresso incontrollato. Occorre lavorare per un nuovo equilibrio con un atteggiamento di apertura e dialogo, allora la fede sarà più credibile.

Apriamo insieme una pagina di un saggio e precisamente il cap 28 del Libro di Giobbe. Nel serrato confronto precedentemente descritto fra Giobbe e i suoi amici, emergono punti di vista divergenti che potremo definire così l’antico principio della retribuzione: i laboriosi onesti vengono premiati; i fannulloni patiscono l’indigenza. Se l’uomo lavora e sa fare si costruirà una fortuna, Dio lo benedice perché è un galantuomo. L’autore del libro contesta energicamente questa considerazione dell’esperienza umana, troppo ingenua e semplicistica. Il cap 28 pone in dialettica l’abilità dell’uomo “faber”, egli è davvero insuperabile nella sua capacità di trasformare la materia: scava i luoghi delle materie che lo arricchiscono, scopre la miniera dell’argento, il giacimento dell’oro, estrae il ferro dal suolo (28,1-2) “trivella gallerie nelle rocce e il suo occhio vede ogni prezioso (28,10), trae dalla terra il pane” (28,5).

Ma ecco sorgere una duplice domanda che divide e conclude le due parti del cap: v 12 “ma la sapienza da dove proviene? Il senso ultimo, la risposta etica chi la rivela all’uomo? Subito dopo la riflessione continua con tono incalzante: v. 13 “il mortale non ne conosce la dimora, la sapienza non si trova nella terra dei viventi”; e ai vv 15-16: “non si baratta con l’oro né si compra con l’argento, né si paga con l’oro di Ofir”.

Questo valore appartiene a Dio, egli solo lo può rivelare nel dialogo religioso. Abilità tecnica, senso degli affari, scaltrezza commerciale non producono automaticamente la Sapienza. Il mortale non ne conosce la dimora (v 13).

V 20 dunque la Sapienza da dove viene?

  1. 23 – Dio solo ne conosce la via, Egli solo sa dove si trovi
  2. 27- Dio solo scruta la Sapienza
  3. 28 – E dice all’uomo: fate attenzione! Venerare il Signore è sapienza, allontanarsi dal male è conoscenza!

 Per l’uomo biblico la terra è dono di Dio; dice il Salmo 115,16: i cieli sono di Adonai, ma la terra l’ha data agli uomini”. L’uomo faber ha il compito di lavorarla e trasformarla, ma con sapienza ammonisce il racconto di Gen 1,28: Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra e regnate con sapienza regale (kabas) su di essa. (Questa traduzione è più precisa di “soggiogatela”). Questa benedizione abilita l’uomo e gli chiede molto di più di un dominio arbitrale, illimitato e distruttivo.

“Regnare con sapienza regale” indica la qualità dell’attività umana che è molto di più dello sfruttamento per arricchirsi e dell’abilità tecnica nel trasformare la materia e trarre il proprio sostentamento. All’uomo Dio assegna il compito di lavorare con sapienza regale (divina) la quale tiene conto di tutti gli aspetti necessari per realizzare ciò che è buono, esattamente come il lavoro di Dio nella creazione in ciascuna delle sue attività produsse il “Buono”. Dio vide che era buono – Gen 1,10.12.18.25.31. Solo il buono serve alla vita di tutti.

Riprendendo il cap 28 di Giobbe, l’autore dice: “ il pane proviene dalla superficie della terra, le ricchezze minerarie dal sottosuolo “ (v 5). In entrambi i casi lo sconosciuto narratore pone in evidenza la stupenda sinergia fra la materia prima offerta dalla terra e il lavoro umano per trasformare i prodotti. La storia (il sentiero) del progresso umano mette in risalto la superiorità indiscussa dell’uomo rispetto agli animali. Nel v 7 si legge: un sentiero sconosciuto ai rapaci (occhi di aquila), né avvistata dall’occhio del falco (il quale vide anche un topo in un prato di notte). v 10: L’occhio umano invece è in grado di vedere ciò che è prezioso, che lo arricchisce e lo sfama.

Vv 13-20 L’oro, l’argento e tutti gli altri materiali preziosi; una volta estratti e lavorati divengono oggetti di scambio economico. Quello che l’uomo non produce lo può acquistare dagli altri, egli fiuta gli affari del commercio, delle borse. Ma questo non vale per la Sapienza, nè per la sua arte regale di regnare. Dopo aver evidenziato il successo tecnologico ed economico, l’autore sottolinea il limite dell’uomo. La capacità tecnologica e lavorativa in genere può essere cantata e persino esibita con arroganza, tuttavia essa sperimenta un limite: la Sapienza non si trova automaticamente sul sentiero tecnico-economico, come non si trova negli abissi (vv 14-19).

L’affermazione del libro di Giobbe è tutt’altro che ingenua o sorpassata; basti pensare che cosa produce l’uomo con la sua fame di ricchezza e di dominio: privilegi di un numero ristretto di potenti, sottosviluppo e impoverimento di intere masse di uomini, tensioni, ingiustizie e guerre.

Nell’era dei giochi finanziari e delle speculazioni senza scrupoli che condanna milioni di uomini all’indigenza, Giobbe (c 28) cita ironicamente tredici materiali preziosi per gli scambi commerciali, fatturati con il sangue dei poveri, degli schiavi e persino dei bambini.

Ma la sapienza rimane irraggiungibile per l’uomo economico-commerciale e speculatore, associato alle grandi multinazionali o alle aziende a delinquere, che manovrano la politica. La domanda dell’autore rimane aperta e l’antitesi si pone tra l’uomo che non può trovare con le proprie risorse la Sapienza, il senso etico ed ultimo nelle cose create (28,15-19). Esattamente come essi sono nascosti agli occhi di tutti gli animali (v 21). Dall’altra (v 23ss) Dio conosce la via e il luogo della sapienza e la può rivelare.

Da questa meditazione sul lavoro umano si ricava che la sola dimensione lavorativa è pericolosamente  insufficiente per l’umanità. Questa deve scoprire anche un rapporto preferenziale con il suo creatore se vuole vivere e crescere nell’armonia dello sviluppo e nel benessere che non la svuota e non l’umilia. Questo rapporto preferenziale l’autore lo consiglia proprio nell’ultimo versetto del capitolo quando, rivolgendo la parola all’uomo, Dio gli insegna la via della Sapienza: “venerare il Signore e allontanarsi dal male” (v 28).

Quello che l’uomo faber (economico, tecnico, finanziario) non riesce a raggiungere, lo ottiene l’uomo religioso che ama Dio e fugge il male, lavorando con sapienza regale. Da notare che non si parla di semplici prestazioni religiose, ma della via sapienziale che ha un carattere primariamente esistenziale e laborioso, fatto di valori autentici e non di recite esibizioniste.

La capacità lavorativa di trasformare e di ricercare che l’uomo esercita nel cosmo è solo una parte delle sue possibilità. Ma egli imita veramente il suo creatore e lo sostituisce nel lavoro sotto il sole, quando accoglie e coltiva la relazione con Dio, fonte di sapienza.  Se l’uomo matura nella saggezza, diventa a sua volta luogo di sapienza, venerando Dio e rifiutando il male per accedere a quella conoscenza che ha occhi, orecchi e cuore per condividere nella solidarietà. Sono le regole di vita universalmente valide, che molti uomini osservano. Altre strade, per quanto ammiccanti, conducono al tramonto.

Troviamo questa sapienza universalmente riconosciuta anche nel Libro dei Proverbi. Molte sentenze provengono dalle culture non ebraiche e fanno parte del patrimonio sapienziale degli uomini di buona volontà.

  • Prov 10,16Il salario del giusto serve per la vita, il guadagno dell’empio per i suoi vizi”.
  • Prov 11,24-26 – C’è chi è generoso e la sua ricchezza aumenta, c’è chi è tirchio oltre misura eppure impoverisce. La persona benefica si arricchisce, e colui che disseta sarà dissetato. Il popolo maledice colui che accaparra il grano, benedizione invoca su chi lo vende (lo distribuisce).

 L’avidità, il privilegio, lo sfruttamento e un falso ordine fondato sull’ingiustizia hanno sempre effetti gravissimi perché impediscono lo sviluppo armonico e integrale del mondo. Non c’è bisogno di rinnegare Dio e la sua promessa di vita eterna per amare l’uomo e difendere la giustizia terrena. E chi si fregia di titoli religiosi stia attento a non offrire coperture alle ingiustizie assurde, che dilaniano il globo, in nome del diritto di proprietà, dell’iniziativa privata o dei privilegi acquisiti. L’esigenza di dignità, di giustizia equa, di rispetto dei diritti di tutti, della promozione e di accesso alla ricchezza donata da Dio sulla terra, sono rivendicazioni dettate dalla Sapienza divina. L’uomo non può diventare luogo di ricchezza senza sapienza, si trasformerebbe in un tiranno che schiavizza. Il colonialismo è diventato oggi interno agli stati, oltre che planetario e si è trasformato in condizionamento economico che consente a pochi di arricchirsi con facilità, alle spalle di masse mantenute in situazione di povertà e miseria.

E’ difficile essere ricchi e mantenere viscere umane, perché in genere il denaro copre gli occhi delle persone con squame pericolose e congela il cuore, le mani e gli orecchi, rendendoli incapaci di accogliere il grido e il lamento dei salariati defraudati. Parlare di sviluppo senza sapienza di riforme circa il lavoro e il commercio è molto rischioso.

L’affanno del troppo lavoro

 La tradizione biblica non esalta il lavoro per se stesso, ma lo collega sempre con la ricerca di senso, di armonia, di solidarietà per la crescita della vita. Spesso lo orienta al recupero di ampi spazi di riposo e di contemplazione: compiere l’opera è finalizzato al godimento del Sabato, alla salvaguardia della qualità delle relazioni con Dio, con la famiglia, con il prossimo. E’ la teologia del Sabato – e per noi cristiani – della domenica a ricordarcelo.

Si veda a tale proposito anche il Salmo 103/104. In questa prospettiva si coglie meglio il rischio di coloro che si abbandonano alla febbre del lavoro come strumento per arricchirsi. Tale ottica culturale altera il senso voluto da Dio circa il lavoro. Dio vuole la crescita totale dell’uomo, non l’idolatria del lavoro come valore primario. La ricchezza cercata per se stessa è maledizione perché attiva l’ingiustizia, grida la Bibbia.

Sir 31,1-5 L’insonnia del ricco logora la sua salute. Le preoccupazioni per il cibo tolgono il sonno più  di una grave malattia. Il ricco si affatica per accumulare averi e, se riposa, vuol godersi piaceri. Il povero sgobba per una vita di stenti e, se si riposa, cade nell’indigenza.  Chi insegue l’oro non sarà senza colpa e chi ama il denaro si travierà per esso.

 L’idolatria del lavoro finisce nell’avarizia –Sir 14,3-4A un cuore meschino non si addice la ricchezza; a una persona invidiosa non si addice l’oro. Chi priva se stesso, risparmia per altri e un estraneo sperpererà i suoi beni. Non troviamo parole benevoli neppure per il lavoro commerciale, oggi traducibile con gli scambi di ricchezza virtuale –

Sir 26,29-27,2Un mercante difficilmente rimane privo di colpe o un venditore immune dal peccato.  Per amore del denaro molti peccano, e la ricerca del profitto acceca gli occhi.  Un chiodo si conficca nelle fessure delle pietre: tra la compra e la vendita s’insinua il peccato. 

L’autore stigmatizza in modo implacabile ogni forma di speculazione e di accumulo sfrenato. Il correttivo suggerito è sempre nella linea di chi ha cuore, occhi e orecchi sensibili e mani generose

Sir 4,2-4Non affliggere chi è indigente, e non chiuderti a chi è depresso. Non esasperare chi si sente abbattuto, non affliggere il povero che ti è vicino e non negare un dono al bisognoso. Non respingere la supplica del povero.

Ricordiamo il monito del Salmo 127,1-2: se il Signore non costruisce la casa invano vi faticano i lavoratori.

 L’idolatria prodotta dal lavoro

 Leggiamo l’avvertimento del 2 Is 44,9-11: i fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla: ma i loro devoti non vedono, ne capiscono affatto. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?

Queste parole sono molto attuali, basta aggiornarle con le amplificazioni dei media a riguardo di certi sport i cui protagonisti sono super pagati e hanno il compito di distrarre ed ubriacare le masse. Lo stesso si può dire delle paghe d’oro di certi ruoli dirigenziali che finiscono per diventare  aspirazioni divine per molti, con l’effetto di atrofizzare paurosamente altre dimensioni della vita umana. Un lavoro amplificato reso idolatrico, il tutto per guadagnare soldi dai compratori di idoli, i quali non brillano per intelligenza. In altre parole l’acquirente è adescato e ipnotizzato dal fabbricatore dell’idolo. Il vero obiettivo che sta alla base di questo lavoro è il guadagno, una vera e propria maledizione perché immola salute e vite umane, schiave del desiderio di successo orchestrato da pochi potenti. San Giovanni nella 1Lettera cap 5,21 avverte: “Figlioli, guardatevi dagli idoli”.

il lavoro come vocazione divina

Nella Bibbia il lavoro appare come qualcosa di normale per l’uomo e la donna; solo i ricchi possono vivere senza lavorare e ciò viene duramente criticato dai profeti. Si veda a tale proposito Amos 6,1-6: “Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Questi notabili della prima tra le nazioni, ai quali si recano gli Israeliti!  Passate a Calnè e guardate, andate di lì ad Amat la grande e scendete a Gat dei Filistei: siete voi forse migliori di quei regni o è più grande il vostro territorio del loro?  Voi credete di ritardare il giorno fatale e affrettate il sopravvento della violenza.  Essi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla.  Canterellano al suono dell’arpa, si pareggiano a David negli strumenti musicali;  bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.

 Gen 2,8.15 Poi JHWH Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’umanità che aveva plasmato. JHWH Dio prese l’umanità e la fece riposare nel giardino di Eden, perché lo lavorasse e lo custodisse.

Il brano presenta l’occupazione del lavoro già nel giardino primordiale. Se mancasse l’acqua e il lavoro, il parco creato da Dio si ridurrebbe a terra deserta. Dio provvede l’acqua, ma questa non basta per rendere produttivo il giardino. La terra non produce a casaccio ogni sorta di vegetazione, è indispensabile il lavoro dell’uomo che mantenga efficiente l’irrigazione, selezioni le piante, pianifichi la produzione, raccolga le messi, le trasformi. L’uomo mangia pane, non frumento, beve vino, non mastica uva.

Da un lato Dio provvede le strutture fondamentali (terra, acqua, le varie specie vegetali da piantare), dall’altra necessita il lavoro dell’uomo, la sua forza lavoro. Noi siamo abbastanza abituati al racconto e non sempre cogliamo tutta la novità rispetto ai miti degli antichi popoli mesopotamici. Anch’essi si sono interrogati sulla creazione, sul perché della fatica del lavoro e della penosa condizione umana. Per queste tradizioni l’uomo è stato fatto dagli dei, perché scavasse canali e servisse gli dei offrendo le primizie per i loro banchetti.

“Il Dio Marni aprì la sua bocca e rivolse queste parole agli dei maggiori: mi avete affidato un compito e io l’ho condotto a termine. Ho tolto di mezzo il vostro lavoro e ho imposto la vostra fatica sull’uomo”.

Diverso è il pensiero biblico che si distingue per il suo ottimismo carico di riconoscenza. Il lavoro non serve per mantenere Dio. Egli viene descritto come un benefattore che prepara una casa ricchissima, prima di collocarvi la sua creatura preferita. Il racconto si muove nella linea della sponsalità. Si veda a proposito la storia di Israele, raccontata in Is 5,1-7, Ez 16,1-19 , Is 5,1-7 ed Os 11.

Dio stesso lavora ed ora associa l’uomo al suo operare perché continui la sua opera. Niente è più conforme alla vocazione biblica dell’uomo quanto il lavoro con cui questi trasforma il mondo materiale, ordinandolo al progresso. L’uomo è il custode intelligente del parco di Dio. La condanna, la miseria, l’abbruttimento, la fatica (sudore), gli scarsi risultati sono da cercarsi nella trasgressività umana – Gen 3,1-24.

L’autore biblico racconta in questo mito la trasgressione di Israele sedotto dai culti orgiastici di Canaan. Tale cedimento ha rotto ogni equilibrio ed è divenuto maledizione. Ma Dio rimane ancora il Dio della vita che si prende cura della sua creatura caduta. La maledizione verrà dunque riscattata dall’agire di Dio (cf Sap 11,21-12,2).

IL LAVORO COME VALORE SOCIALE

 Ef 4,28 Il breve testo paolino educa il discepolo sul modello Gesù. “Chi era avvezzo a rubare non rubi più, piuttosto si sforzi di lavorare per avere di che condividere con chi si trova in necessità”. L’apostolo, dopo aver comandato a colui che abbraccia la via di Cristo di non rubare più, positivamente gli ordina di affaticarsi e lavorare onestamente per condividere con chi ha bisogno. Non si deve vivere a carico degli altri se non per gravi motivi di malattia o indigenza. Al di fuori di queste situazioni l’ordine è di lavorare per vivere e soprattutto, ecco l’aspetto originale, per aiutare chi ha necessità. Rubare è negare la responsabilità di solidarietà sociale; educarsi a lavorare per rafforzare la solidarietà verso coloro che soffrono privazioni fa parte dei doveri di un cristiano.

Il testo lucano di 16,19-31 è ancora più radicale: dipinge un personaggio egoista e gaudente reso cieco dalle ricchezze e dal lusso sfrenato: feste,vestiti, pranzi etc.. I beni sono doni divini da amministrare per gli altri, non diritti assoluti da consumare fino all’abuso: per il ricco la vita è un banchetto quotidiano, l’abbondanza è visualizzata da vesti sontuose come la porpora e il lino egiziano. La posizione agiata del ricco contrasta in modo stridente con colui che giace con i cani alla porta, affamato, ammalato e vestito di stracci. Gesù dipinge la malvagità egoista e dannosa che espropria di legittime risorse milioni di esseri umani, condannandoli ad una vita sub-umana.

Il lavoro di Gesù

Gv 5,19-20

 Gesù riprese a parlare e disse: «In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati.

Dopo la guarigione del paralitico si è accesa una disputa fra Gesù e i Giudei. Gesù si limita ad affermare che il Padre opera in continuità, ugualmente lo fa anche il Figlio. L’operosità di Gesù è illustrata chiaramente dall’espressione: il Figlio impara dall’agire del Padre. Egli lo guarda con attenzione in un contesto di amore. E il Padre non lo costringe, ma semplicemente gli mostra il suo agire, mentre il Figlio desidera imitarlo. L’operosità che il Padre gli mostra produce vita e la restituisce a chi l’ha perduta. Proprio questo lavoro è ripreso da Gesù e interpretato a favore dell’uomo. E’ stata la regola della sua vita lavorativa, perciò nel momento di lasciare il mondo e tornare al Padre, dando uno sguardo retrospettivo alle vicende della sua vita può dire con verità: “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che tu mi hai dato in dono di fare” (Gv 17,4).

Auguriamoci che il nostro lavoro, qualunque esso sia, anche nel  grigiore quotidiano, possa conoscere la gioia segreta della gratuità e la forza di promuovere vita finchè il Regno di Dio venga pienamente per tutti gli uomini.

Bibliografia di riferimento

 AA.VV. Ouvrir les Ecritures, ed Cerf n 162, 1955.

  1. Borgononovo, La notte e il suo sole, Roma 1995
  2. Camara, Roma, le due del mattino, ed S.Paolo 2008

A cura di G. De Gennaro, Lavoro e riposo nella Bibbia, ed  Napoli 1987.

AA.vv “L’AT e le culture del tempo”, ed Borla 1990.

Lettura di J. Goldstain, Creation et péchè, pp 112-115

Letture dei giorni – 887-888.

A cura della Comunità di Bose, Piemme 1994.

Il lavoro appare come la vocazione primordiale dell’uomo nei confronti del creato; un po’ come il culto lo sarà nei confronti dell’increato. Non per nulla il medesimo termine ebraico avodah designa l’uno e l’altro. Così, quando i Pirqe Avot, il trattato dei principi dei principi del giudaismo, dicono all’inizio (1,2) che il mondo si sostiene su tre cose: la legge, l’amore e l’avodah, questo può intendersi sia del lavoro come del culto.

Ma se il culto è un “lavoro”, è valido anche l’inverso: il lavoro dev’essere considerato come un “culto”. In tutta la sua attività la creatura loda Dio, perché questa attività realizza il desiderio di Dio. Per lo slancio che lo trascina alla propria perfezione il mondo è come un’immensa aspirazione a Dio. Ma nel contempo è anche un appello all’uomo perché lo renda armonioso e più umano, perché lo ricolmi di intelligenza e di ordine; insomma, lo faccia cantare.

Così, per il lavoro dell’uomo, la creazione è nel contempo dono di Dio e conquista dell’umanità. Niente è più conforme alla vocazione biblica dell’uomo quanto il lavoro con cui questi trasforma il mondo materiale ordinandolo a suo piacimento, realizzandovi  dei progressi incessanti grazie a una padronanza sempre più grande delle forze che esso nasconde in sé. Nella descrizione lirica dei ritmi del cosmo che si propone il Salmo 104 c’è anche l’uscire di casa dell’uomo fin dal sorgere del sole per andare a lavorare, per compiere il suo lavoro fino a sera. Per quanto sia umile il lavoro, è pur sempre il “sostegno della creazione” (Sir 38,34) e l’uomo vi appare come collaboratore di Dio (cf. 1Cor 3,9). E’ deliberatamente un mondo incompiuto quello che Dio ha consegnato nelle mani dell’uomo, perché questi vi possa lasciare la sua impronta. “Di tutto ciò che è stato creato nell’opera dei sei giorni non v’è nulla che non sia da portare a compimento e che l’uomo non debba ritoccare” (Sepher aggadah).

Un maestro del chassidismo diceva: “Ogni uomo ha per vocazione di completare qualcosa in questo mondo”. Dio portò a termine il mondo nel sesto giorno come un tessitore porta a termine l’ordito di un tessuto. Spetta all’uomo il compito di fare la trama. Non è forse questo il senso di ciò che leggiamo nel racconto della Genesi: “JHWH Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra e non c’era uomo per coltivare il suolo (Gen 2,5)?” Lacuna che Dio colmerà creando l’uomo e assegnandogli il compito di coltivare  e custodire il giardino dell’Eden.

Il lavoro dell’uomo impregna di spirito la materia, la umanizza, la rende più dolce al nostro sguardo, e la rende così un po’ più simile alla bontà divina, un po’ più bella agli occhi di Dio, realizzando in tal modo l’attesa divina. (…)

Proprio perché l’uomo ne è il custode, la creazione sarà tributaria del suo peccato e della sua disobbedienza, sottomessa alla “vanità”, all’assurdità. Consegnata nelle sue mani perché serva alla gloria del suo Creatore e alla felicità della creatura, l’uomo con il peccato la distoglierà dalla sua finalità facendola concorrere all’offesa dell’uno e alla distruzione dell’altra. Perciò essa gemerà come per i dolori del parto (cf. Rm 8,22).

Così l’uomo è l’ago della bilancia della creazione: questa creazione egli la può offrire al Padre attraverso il lavoro, ma la può anche sfigurare e profanare con il peccato. E’ il senso dell’avvertimento dato ad Adamo, che un midrash mette sulla bocca di Dio: “Vedi come sono belle le mie creature, come sono meravigliose? E’ per te che ho creato ogni cosa: fai attenzione a non sciupare, a non far sfiorire il mio universo; perché, se lo sciupi, non ci sarà nessuno dopo di te per restaurarlo (Sepher aggadah).