(Conferenza tenuta a Treviso, 1988)
IL MONACHESIMO BENEDETTINO
Cos’è il monachesimo? Come si colloca nella chiesa?
Mi pare opportuno iniziare questa nostra conversazione sul monachesimo di Benedetto con quiesta premessa metodologica.
Il monachesimo si aggancia a quanto c’è di più vitale nell’uomo e si interroga sul suo rapporto con Dio, sul sensod ella vita nei suoi valori supremi. Il monachesimo, perciò, è comune ad ognio religione: esso fa parte del cammino sapienziale dell’uomo che cerca Dio.
Con l’apparire del cristianesimo il monachesimo intuisce nella figura di Gesù, nel suo mistero (parole, morte e resurrezione, dono dello Spirito) il modello nuovo ed essenziale a queso bisogno nativo dell’uomo. Gesù si offre come “colui che cerca Dio”, ovvero come “risposta vivente” al quesito che, se l’uomo cerca Dio, lo fa solo perché Dio per primpo si è posto alla ricerca dell’uomo. Gesù si pone come lo svelamento, il rivelatore del Gratuito, che è il dono del Padre pèer tutti gli uomini, che gratuitamente, nonostante le infedeltà dell’uomo, si offre come dono, come Amore.
Gesù è il “diletto Amato”, che si fa carne, convive con noi, muore per noi, ma il terzo giorno risorge, donando il suo Spirito a tutti coloro che si lasciano afferrare da suo Amore. Il mistero pasquale ci svela la Koinonia di Dio, koinonia – comunione che è Dio, che si apre all’uomo per fare di tutti i figli adottivi di Dio.
Il monachesimo come ricerca sapienziale di dio riceve il suo battesimo in Cristo.
Esso scorge nella proposta di Gesù il modello del radicalismo per il Regno. Si allarga l’invito di Gesù a seguire Lui; tale invito non è solo per gli apostoli, ma è per tutti,che in varietà di doni dello Spirito, vogliono giungere a salvezza.. Nell’ottica pasquale (Risurrezione e dono dello Spirito) i credenti scoprono guidati dalla Parola di Dio, dalla Scrittura e da Primo e Nuovo Testamento che il Regno è ormai inaugurato, che il “tempo” già ha avuto il suo compimento, che la storia si può vivere con un senso profetico, aperto cioè ai “cieli nuovi e terra nuova” in cui inabita la giustizia.
Ma l’incontro del monachesimo col cristianesimo è sì un Battesimo in Gesù.
L’incontro con Gesù pone al monachesimo una richiesta di conversione. Non si accede a Gesù se non ci si converte, dall’eros religioso all’agape, dall’ascesi autogratificante all’amore della benevolenza del Padre, dallo sforzo e dalla fiducia nei propri meriti all’abbandono al Padre in Gesù. In fondo è nel monachesimo che nasce l’eresia pelagiana. Il monachesimo ha anche con sé questa realtà pesante dell’ascesi autogratificante. A che la grazia?
Ecco la necessità della conversione. Ho parlato del Battesimo del monachesimo in Gesù,esso si pone perciò come carisma che nasce dall’esperienza viva del popolo di Dio in cammino per il Regno. Il monachesimo si riconosce nella sequela radicale di Gesù, nella sequela della sua offerta di essere Lui ormai il “tempo” previsto della benevolenza di Dio per la salvezza degli uomini. Il monachesimo cristiano pur avendo profondi addentellati religiosi pre-cristiani, filosofici, a questo punto acquista una nuova coscienza della propria identità. Non si ricorderà più Filone o Plotino o altri maestri della sapienza, ma ci si richiama a Gesù (la grande tradizione monastica, pur conscia di questa sua matrice pre-cristiana, inizia con Gesù). Il monachesimo cristiano scopre nella Bibbia il grande tracciato del cammino sapienziale, la Sacra Scrittura letta sotto la guida vitale di Gesù, della sua vita, del suo insegnamento, del suo mistero pasquale. Il monachesimo si ritroverà nella prima comunità come è vissuta a Gerusalemme secondo quanto gli Atti degli Apostoli ci offrono il giorno della Pentecoste: “essi erano assidui nell’insegnamento degli Apostoli, alle riunioni comuni, alla frazione del ap ne, alla preghiera”.
“E tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano tutto in comune e vendevano i loro possessi e i loro beni e ne distribuivano il prezzo fra tutti secondo il bisogno di ciascuno” (Atti, 2,42,ss).
“E quando ebbero pregato furono tutti ripieni di Spirito Santo sicché annunziavano con franchezza la Parola di Dio. E la moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era fra loro comune”. (Atti4,31ss).
Il monachesimo cristiano sembra che ignori precedenti e inizia con questa pagina.
E’ chiaro che la proposta monastica giunge alla Chiesa come carisma sollecitante il suo radicalismo a “niente anteporre all’amore di Cristo”. E’questo il detto centrale della regola di S. Benedetto.
Con questo sguardo si legge il Vangelo, si scopre come dono dello Spirito il celibato per il Regno, l’amore totalizzante per Gesù e per la sua proposta. Questo sguardo di amore totalizzante spiegherà ogni atteggiamento esistenziale nuovo con cui si guarderanno le cose, regolando il cammino della vita, quanto cioè nel Vangelo si ritrova sull’uso dei beni e della propria vita (quanto più tardi sarà compreso con la povertà e l’obbedienza).
Quando la chiesa, dopo l’immediata pace costantiniana, gustando la pace dopo la persecuzione, ma insieme anche i favori dell’imperatore convertito a Cristo, favori che si rivelano carichi di tensione e di tentazione per la sua profezia, il monachesimo si rivela quale carisma della libertà cristiana, contro il potere mondano, contro il potere che poteva venire dal Tempo e ancora contro la tentazione dell’ascesi auto gratificante per il primato indiscusso dell’Amore.
In questo quadro compare Benedetto e la sua proposta monastica nel sesto secolo.
- – CRISTIANESIMO ED ECCLESIALITA’ DELLA PROPOSTA IN SAN BENEDETTO
Non si può fare il discorso su S. Benedetto (nascita nel 480) senza accennare a Gregorio Magno, che vive il suo pontificato alla fine del sesto secolo, la generazione quasi immediata a Benedetto, di cui Gregorio nei suoi dialoghi (599) ci tesse la “leggenda” ed è l’unica narrazione dell’uomo di Dio Benedetto. Questi “dialoghi” di Gregorio sono una storia mitica poetica intorno ai monaci che vivono vicino Roma nel sesto secolo, la Sabina, il Sannio ecc (cfr. Patrologia latina n. 94, Libro II, Jaka Book –“La Regola”).
E’ una storia che Gregorio concepisce sul tracciato biblico, Benedetto è un uomo di Dio come Elia, Eliseo, come i profeti e gli apostoli. E’ una storia che è insieme riflessione teologico-spirituale su Benedetto e sul suo carisma ecclesiale.
Nella narrazione Dialoghi sulla vita di Benedetto, Gregorio Magno vuole dimostrare che anche l’occidente ha il suo monachesimo. Non occorre andare in Egitto, la patria naturale del monachesimo primevo, ma Roma ha il suo monachesimo. Roma, proprio al declino del suo potere, propone la comunità dei poveri di Dio, dei servi di Cristo come modello della nuova chiesa che dovrà sorgere al declino dell’impero.
Nella proposta monastica di Benedetto l’evento pasquale è decisivo.
La vita di S. Benedetto, nato a Norcia, è segnata da una fuga da Roma, ove si era recato per motivo di studio. Questa uga, nell’ottica di Gregorio Magno, ripropone l’uscita di Abramo dalla propria patria indicatogli da Dio stesso. Benedetto fugge nella solitudine di Subiaco a 60 chilometri da Roma, vive nello speco educato da Dio, ignoto a tutti. Solo un monaco di Roma gli portava del cibo, che si toglieva dalla sua parca mensa-
Ma il giorno di Pasqua (dopo tre anni trascorsi nello speco), Dio volle mostrare in esempio agli uomini l avita di Benedetto, perché la lampada doveva essere posta sul candelabro per far luce a tutti quelli che sono nella casa del Signore.
“Il Signore si degnò dunque di apparire a un tale prete (notiamo la nota ecclesiale del monachesimo di Benedetto) che abitava a qualche distanza nel momento in cui si era preparato il desinare nella festa di Pasqua (si noti che il Signore gli appare mentre stava preparandosi da mangiare) e gli disse : “ Tu ti sei preparato buone cose e il mio servo nel deserto soffre la fame”. Subito quegli si alzò e in quella stesa solennità di Pasqua, raccolti gli alimenti che aveva preparati per sé si diresse al luogo indicato, cercando l’uomo di Dio per i dirupi dei monti, nelle insenature delle valli, nei cavi delle grotte e lo trovò nascosto nello speco. Fatta orazione Benedetto e il sacerdote sedettero e conversarono delle dolci cose della vita eterna. Poi il prete che era venuto gli disse: “alzati, prendiamo cibo, perché oggi è Pasqua”. “Oh si – rispose Benedetto – oggi è proprio Pasqua per me perché ho avuto la fortuna di vedere te”.
Così lontano dagli uomini il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua. Riprese il sacerdote: “Io sono stato inviato qui proprio per questo, per cibarci insieme, da buoni fratelli di questi doni che l’onnipotenza di Dio ci ha messo davanti” Finita la refezione il sacerdote fece ritorno alla sua chiesa”.
Circa lo stesso tempo, anche alcuni pastori scoprirono Benedetto nascosto dentro lo speco, e riconosciutolo come servo di Dio, si diedero a santa vita. Perciò la fama di lui si sparse in tutti i paesi vicini e già fin da allora molti cominciarono a frequentarlo.
Purificato inoltre da grave tentazione ad imitazione di Gesù che prima della sua vita pubblica combatte il satana nel deserto, molti cominciavano a lasciare il mondo ed accorrevano sotto la sua disciplina.
La popolarità rivive il mistero della chiesa attraverso l’esempio dei Santi ed è importante che Gregorio Magno riproponga questa esperienza pasquale attraverso la vita dio Benedetto.
Alcuni giovani della vecchia Roma si posero alla scuola di Benedetto, si fa il nome di Mauro e di Placido. Nasce la comunità, il cenobio “con l’aiuto dell’Onnipotente Signore Gesù Cristo, vi potè costruire nella valle dell’Aniene, dodici piccoli monasteri, in ciascuno dei quali costituì un abate e assegnò dei monaci, con sé ne tenne alcuni pochi che gli parve più conveniente formare sotto i suoi occhi”. (Libro2° — Dialoghi, cap. 3).
Vi domina come fatto centrale l’evento di Pasqua, che fa di Benedetto un uomo apostolico. Come gli apostoli egli fonda la comunità dei credenti – i monaci – alla sequela di Gesù. Simbolico il numero “dodici” che ci richiamerà la vocazione dei dodici apostoli da parte di Gesù. Quel mistero dunque della sequela si perpetua nella grazia monastica.
E’ importante dunque l’attenzione al Mistero Pasquale.
Il monachesimo di Benedetto nasce anch’esso in questa “Nuova Pentecoste” e si perpetua nell’esperienza di Benedetto “la piccola Pentecoste” degli Atti – cap. 10,44 – (lo Spirito discende sopra i pagani alla predicazione di Pietro) e continua nell’esperienza del monachesimo. Gli Atti o le gesta degli apostoli della chiesa primeva dunque non sono concluse, ma rimangono come momento dinamico.
Così Benedetto, sollecitato a dare di nuovo la vita ad un fanciullo morto, figlio di un povero contadino, si ritrae quasi inorridito. “Queste cose non sono nostre, sono degli Apostoli”. Ma dietro insistenza dei discepoli e commosso dal pianto del pover’uomo si pone in preghiera e ottiene il miracolo. Dunque anche Benedetto è un apostolo come Pietro e Paolo.
Importante per questo è il primo libro dei Dialoghi ( la vita di Benedetto è raccontata nel II); si parla di un altro uomo di Dio, — Onorato – è il santo monaco con cui si inizia questa narrazione; esso è istruito direttamente dallo Spirito Santo come lo furono gli apostoli il giorno della Pentecoste.
Sono da sottolineare queste avvertenze cristologiche, ecclesiologiche e pneumatologiche. La presenza dello Spirito Santo e di Cristo forma la nuova storia. Il Vangelo continua, le gesta degli Apostoli continuano nella vita degli uomini di Dio e qiesti sono posti come maestri per il popolo di Dio.
Il mistero pasquale dunque è alla base di questa offerta che il monachesimo romano del sesto secolo fa alla chiesa. Emerge la sua essenzialità cristocentrica, pneumatocentrica, ecclesiocentrica. Esso si pone come eco della pagina pasquale degli Atti degli Apostoli. E’ un prete che va a portare l’annuncio di Pasqua a Benedetto. E’ un annuncio quasi liturgico: “Oggi è Pasqua”.
Quel testo agiografico è una mistagogia, è una celebrazione del mistero, ed è importante che la celebrazione si faccia mangiando, consumando il cibo nel giorno di Pasqua.
- – DEMITIZZAZIONE DEL DESERTO GEOGRAFICO E INTERIORITA’
L’offerta decisiva del monachesimo apostolico quale è quello di Benedetto, è una demitizzazione del deserto geografico a vantaggio della interiorizzazione di esso. Questo è importante perché la spiritualità moderna, in un certo modo, nasce in questo contesto.
Essere monaci significava sinora fuggire nel deserto della Tebaide o della Siria.
Oggi nella Chiesa di Roma, nella nuova comunità di fede che nasce dalla distruzione della vecchia Roma, si può vivere da monaci nelle campagne, anche nelle stesse città, perché il monaco Benedetto, nella esperienza dottrinale di Gregorio, inaugura un nuovo modo di sentire il deserto ed è “abitare seco stesso sotto gli occhi di Dio”. Il tramonto delle “strutture di potere” anche spirituale, va a vantaggio di una maturazione dell’esperienza cristiana. Il deserto può avere sì un significato, ma solo funzionale, pedagogico; nell’ottica cristiana ciò che giustifica è solo l’amore.
Benedetto e Gregorio ci offrono la cella del cuore già prima di S. Caterina da Siena, come anelito nuovo del deserto è il proprio intimo del cuore.
Abbiamo qui la cella del cuore, la coscienza, l’animus in cui ormai si stipulano le nozze del Verbo di cui il deserto biblico (questa è una interpretazione del vero senso del deserto, il nuovo esodo dei profeti, interiorizzazione cioè dell’esperienza personale con io Dio della conversione) nel continuo simbolo è il richiamo vitale. E’ un superamento delle strutture sacrali.
Gregorio Magno alla scuola della Bibbia e di Agostino, e con esso Benedetto, sono alla base della spiritualità a cui con fatica noi ci si sta aprendo; ed è una dimensione l”laica” della spiritualità.
Che significa “abitare seco stesso” nella spiegazione che dà Gregorio? Si dice, di Benedetto, che “abitò solo con se stesso sotto gli occhi del Supremo spettatore”. Spiega Gregorio: “il venerabile Benedetto in quella solitudine abitò seco stesso perché tenne in custodia se stesso nella clausura del pensiero” (claustrum cogitationis). Dunque il chiostro non è solo materiale, ma anche il chiostro della mente nella clausura del pensiero.
Dal “claustrum” geografico tipico della tradizione monacale si passa al “claustrum cogitationis” interiorizzato; è l’operazione laica del problema.
Continua il testo: “mentre ogni volta che l’ardore della contemplazione lo rapiva in alto, egli lasciava se stesso al di sotto di sé”; spiega ulteriormente Gregorio: “quest’uomo venerabile abitò seco stesso, sentendosi sempre sotto lo sguardo del Creatore, sempre scrutandosi, non divagò fuori da se stesso l’occhio della sua anima”.
E’ il primo problema che Gregorio affaccia nella vita di Benedetto e perciò di importanza fondamentale.
- – RECUPERO DEL “TEMPO” E DELLA “STORIA”
PREGHIERA E LAVORO SONO LITURGIA UNICA.
Se Benedetto demitizza il deserto, è soprattutto a vantaggio di un recupero della nozione di “tempo” e della “storia” e della presenza del credente-monaco in esso. Il monaco del deserto (che fuggiva nel deserto) perdeva il senso del tempo e della storia. Egli non lavorava. Per evitare l’ozio, il monaco tesseva le tende di giorno per disfarle durante la notte.
Benedetto non capisce questo; bisogna lavorare veramente; c’è da dissodare il terreno, si dissoda; c’è da prosciugare la palude, si prosciuga; ci sono da copiare i codici, si copiano; c’è da studiare, si studia veramente. Il monaco corre il rischio di auto gratificarsi, in una logica che non è quella pasquale.
Gesù entra nella storia e l’abbraccia nella sua realtà, si pone come “germe” di vita nuova nella proposta di amore. Il monaco del deserto assolutizza la theoria, la contemplazione contro l’impegno della carità.
Il monaco di Benedetto dovrà perciò pregare e lavorare. Preghiera e lavoro che nell’ottica della tradizione primeva benedettina ripropongono la formula cristologica di Calcedonia, di Cristo, vero dio e vero uomo. E’ una confessione di fede. È una liturgia.
Con un programma di vero lavoro (sei ore) il monaco di Benedetto solidarizza col Cristo, che appare come il figlio del falegname. Le prescrizioni sulla regola sono chiare e precise: “L’ozio è nemico dell’anima”. Inizia così il capitolo della Regola di Benedetto che normalizza il lavoro. Dunque, è vero che il lavoro è amico dell’uomo. Benedetto vuole che il monaco risponda anche con i suoi talenti ai vari impegni di lavoro. La tradizione artistica della vita benedettina è ben conosciuta e non occorre spendere parole (Regola cap. 57).
Il lavoro è la confessione all’umanità di Cristo. I dogmi delle generazioni cristiane, non venivano formulati perché rimanessero confessioni di fede astratta; essi avevano lì incidenza nella vita, venivano celebrati nella liturgia, ma la liturgia aveva un riscontro nella vita attraverso l’impegno della carità. Quindi il monaco lavorava confessando l’umanità di Cristo, impegnandosi a tempo pieno come Cristo si era impegnato nella storia.
La preghiera risponde come confessione al Cristo Dio. La preghiera della comunità monastica è caratterizzata dalla liturgia delle ore; significa che nel tempo si è verificato il disegno di Dio. Il tempo è stato riscattato dalla vanità. Ecco l’importanza della liturgia delle ore, recuperare la storia della salvezza, lodare Dio nel tempo, ringraziare Dio in questo tempo, essere compenetrati in questo tempo dalla conversione per ritornare a Dio. La preghiera liturgica è preghiera pasquale per eccellenza. Il monaco recupera il tempo biblico, la “settimana della creazione”, ma anche la “settimana della redenzione”, aperta all’escatologia. La simbiosi o la sinfonia tra preghiera e lavoro nell’ottica pasquale: sono essi gli elementi di questa spiritualità oggettiva e storica.
E’ felice il monachesimo quando si è tenuto fedele a quest’ottica; però nel tempo sono prevalse le tentazioni spiritualistiche.
La vita di Benedetto ci ha trasmesso un aforisma sull’azione liberante del lavoro. SI legge: “Un povero goto lavorava e disboscava il terreno intorno al lago di Nerone nella vale di Subiaco, e gli esce la falce dal manico e scivola nell’acqua. Il povero goto propone il suo caso a Benedetto, che avvicinato al lago il manico della falce, ecco che questa riemerge dall’acqua e torna al suo posto”.
Ecco il miracolo. Ciò che è importante è il significato. Benedetto dà al goto lo strumento del suo lavoro con la benedizione: “lavora e stai contento”.
La fede dei barbari, dei nuovi popoli ritrova la sua esperienza della fede nella comunità monastica più che in quella gerarchica, perché la prima ha l’elemento contadino e la tradizione barbara è tradizione contadina. La fede veniva trasmessa anche attraverso questo supporto culturale. La tradizione cittadina sedentaria era meno adatta ai nuovi popoli. Ecco l’incontro tra barbari e monaci, spontaneo, naturale.
Che la preghiera dia gioia è scontato, ma che il lavoro possa comunicare gioia può essere discusso. Per Benedetto, il lavoro nutre lo stato d’animo di serenità e di pace.
La preghiera, secondo la testimonianza di Benedetto, conforme alla tradizione dei padri, era frutto della lectio costante delle Sacre Scritture. Come gli Apostoli il giorno di Pasqua ricevono il carisma dell’interpretazione e il dono della comprensione delle Scritture, così è per Benedetto e per la sua comunità monastica, che nasce il giorno di Pasqua. La comunità ha un ruolo profetico.
Benedetto, insieme a Gregorio, lasceranno alla chiesa questo grande patrimonio della lectio biblica, che è il criterio concreto della spiritualità monastica, come sarà poi della chiesa. Lectio – Meditatio – Oratio – Contemplatio – Evangelizatio è la scala che conduce al Paradiso, che si dischiude a noi nell’intelligenza della Parola.
Questi enunciati di lettura-meditazione non stanno ad esprimere solo un proceso di intelligenza sempre più profonda della Parola, un’assimilazione come di nutrimenti, ma anche un processo più vitale per quanto riguarda la reinterpretazione delle Sacre Scritture nei nuovi contesti storici in cui la comunità di Benedetto sarà poi condotta.
La meditatio, per Gregorio Magno, – che commenta al suo popolo il nuovo Tempio dell’era messianica di Ezechiele, – non è solo argomento del “culto spirituale” a cui noi tutti dobbiamo aprirci (meditatio = interiorizzazione del tema) ma quel “nuovo Tempio” sono precisamente i nuovi popoli, che subentrano nella storia al declino dell’impero di Roma.
C’è un tentativo di rilettura della Parola di Dio in una situazione storica nuova.
Il Commentario biblico che San Beda offre alla chiesa inglese (monaco della prima generazione cristiana inglese) offre degli esempi belli nel commento del “tempio di Salomone”; ebbene, “il tempio nuovo è la Chiesa corpo di Cristo, le colonne sono i predicatori del Vangelo che Papa Gregorio nei nostri giorni ha inviato in Inghilterra”.
Si noti la preoccupazione esistenziale. Dalla Chiesa madre di Roma nasce la chiesa locale in Inghilterra. Si inserisce come continuazione degli Atti degli Apostoli vissuta in Inghilterra. La preghiera monastica acquista un carattere storico salvifico ed è preghiera ecclesiale. Quando si dice che si prega con la Liturgia, si prega con la Chiesa, nel suo travaglio, nelle gioie, inseriti nel cammino ecclesiale.
La preghiera è dunque attualizzazione del mistero della salvezza; emerge la lode, il ringraziamento, che sono atteggiamenti tipici della preghiera biblica espressa nei Salmi.
Ecco il grande precetto di S. Benedetto: “Nulla, assolutamente nulla si anteponga all’opus Dei” – Ergo nhiil Operi Dei praeponatur” – (R.B. cap 72).
La comunità monastica secondo Benedetto non è comunità di oranti! Il monaco dovrà lavorare a uguale titolo con cui prega. Ecco perché l’insegnamento di S. Benedetto sulla oratio privata è così sobrio (S.R. cap. XX). Deve essere pura e breve perché è dono dello Spirito, a meno che non sia prolungata come dono speciale. Non esiste nella Regola l’ombra di voler fare dei monaci una “corporazione di oranti” a cui demandare “ex officio” l’impegno della preghiera. Questo verrà solo più tardi.
Nell’epoca carolingia, si guarda al monachesimo come ad una forza religiosa. Mentre il monaco prega, i “signori del tempo” manovrano la storia. Ma in realtà si taglia la voce profetica alla chiesa. Si zittiscono i monaci con larghe donazioni e non ci sarà più il lavoro. Ma questo non è monachesimo di S. Benedetto: Tante ambiguità del cammino storico della chiesa si compiono su questo terreno. Si può deviare dall’ideale cristiano sia col radicalismo materialista sia con quello spiritualista.
- – L’ASCESI SI RISOLVE NELLA CARITA’ – IL PRIMATO DELL’AMORE.
Benedetto che “nasce a Pasqua, interiorizzando il deserto e recuperando il tempo con Ora et labora”, inaugura un’ascesi delle verità cristiane che culminano nell’amore-
Mentre il “deserto” nella sua accezione biografica si prestava all’autogratificazione, Benedetto, recuperando il tempo e la storia con la preghiera, insieme al lavoro ( nel senso neo-testamentario) recupera l’ascesi tipica della sequela di Gesù. Significativo l’incontro di Benedetto con la sorella Scolastica: “Quando Benedetto andò a trovare per l’ultima volta la sorella Scolastica, essa prevedeva che stava per morire. Giunta la sera Benedetto voleva ritornare al monastero perché aveva scritto la regola dove si dice che il monaco, ad una certa ora, deve rientrare in monastero. Scolastica allora si mise a pregare il Signore e subito si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che, né il venerabile Benedetto, né i monaci che erano con lui poterono mettere piedi fuori dell’abitazione. Benedetto rammaricato dice alla sorella: cosa hai fatto? E lei risponde: “ho pregato te e non mi hai ascoltato, ho pregato il Signore e mi ha ascoltato. Adesso esci pure se puoi.” Pur non volendo, Benedetto dovette stare con i suoi discepoli a pregare e lodare Dio con la sorella”.
E’ importante il commento che fa Gregorio: “Scolastica ottenne di più perché amò di più”. E’ il primato dell’amore (Dialoghi. Cap. XXXIII). E’ tipico che il primato dell’amore venga presentato da Scolastica; essa rimane un modello esistenziale per tutti i tempi, il primato dell’amore su ogni regola. La regola stessa di Benedetto si conclude con una netta demitizzazione della regola quando dice: “Questa regola serve per chi comincia, ma per chi vuole camminare segua l’Evangelo”.
La regola di S. Benedetto non conosce la parola “contemplazione”, ma quella della “carità”. Mentre la prima aveva con sé tutta l’ambiguità della filosofia neoplatonica, la carità invece esprime quanto Gesù ci ha insegnato: “il grande e unico precetto che è l’amore”.
L’impegno comunitario tipico di Benedetto si pone come “culto spirituale” della comunità: la vita dell’amore fraterno. E’ quanto ci insegna i, cap. 72 della Regola di S. Benedetto.
- LANCIO MISSIONARIO
Il monaco educato alla preghiera e al lavoro come risposta esistenziale al mistero cristiano, quale è espresso nel momento primigenio (Gesù morto e risorto), trova anche il carisma di annuncio della Parola di Dio.
Benedetto evangelizza la popolazione intorno a Cassino; questa predicazione è espressione dell’impegno battesimale del sacerdozio regale e va anche al di là della semplice investitura gerarchica.
Sarebbe interessante leggere il primo libro dei Dialoghi, nel quale appare un certo contrasto tra il vescovo di Roma e un monaco che predicava senza il suo consenso. Il monaco aveva avuto l’ispirazione dallo Spirito Santo. Il Papa voleva impedire la predicazione del monaco e questi obbedì. Ma l’angelo, nella notte, disse al Papa: non ti interessare di questo, ho dato io il permesso al monaco di predicare, lascialo predicare. Tu interessati delle cose della tua chiesa.
“Ivi giunto l’uomo di Dio fece in pezzi l’idolo, rovesciò l’ara, divelse i boschetti consacrati
ai demoni. La gente poi che abitava lì intorno con assidua predicazione egli andava chiamando alla fede”. (dai Dialoghi, cap. 8).
Non si può parlare né pensare al problema dell’evangelizzazione del nostro occidente senza tenere in debito conto la presenza del monachesimo benedettino.
L’evangelizzazione condotta dai monaci di Benedetto si qualifica per un’ispirazione biblica. Gregorio, monaco lui stesso,invia i monaci in Inghilterra. La grande preoccupazione di questi monaci-evangelizzatori è di rivivere lo spirito della chiesa primitiva di Gerusalemme “comunione di vita, preghiera, lettura dei libri santi, fedeltà all’insegnamento degli apostoli”.
Essi inoltre so tenevano disposti ad annunciare la Parola a quanti lo desideravano, non si imponeva ad alcuno quel messaggio, ma si era disponibili alle richieste dei fratelli. Si dice che i pagani, commossi dalla vita evangelica che i monaci vivevano, si convertivano alla fede.
Gregorio si premurerà di dare direttive quanto mai aperte a riguardo dell’inculturazione del messaggio annunciato. Agostino (capo della missione romana in Inghilterra) non doveva irrigidirsi nel conservare le consuetudini liturgiche della chiesa di Roma, ma si premurò di raccogliere usi e consuetudini del luogo e di esse fare quasi “un mazzo di fiori” da offrire alla chiesa locale che si inseriva in Inghilterra.
E’quest’ottica che garantisce alla vita monastica di Benedetto un peculiare senso ecclesiale. Il monastro e il monaco di Benedetto sono luoghi in cui si educa alla solidarietà cristiana.
ATTUALITA’ DELLA PROPOSTA MONASTICA.
Nel libro III dei Dialoghi c’è un apoftegma della vita di S. Benedetto in cui si parla di un monaco eremita che, per molti anni, rimase chiuso in una angusta caverna, come Benedetto nello speco. Egli, in un primo tempo, quando ancora no abitava nella caverna chiusa, si era legata al piede una catena di ferro, fissando nella roccia l’altro capo, in modo che no gli fosse possibile fare un passo più in là della lunghezza della catena.
Quando il fatto giunse all’orecchio di Benedetto, egli mandò un suo discepolo a quel monaco per dirgli. “ se sei servo di Dio non ti costringa la catena di ferro, ma il vincolo che è Cristo” Martino, udito questo monito, subito sciolse la catena, ama anche libero, mai il suo piede varcò il luogo dove prima era incatenato: egli si costrinse a rimanere in quel limite ove prima era legato, ma ora lo faceva per amore.
Questo racconto attualizza la proposta monastica nella chiesa.
“Non sia la catena di ferro a tenerti legato, ma la catena di Cristo”. In altri termini, abbiamo il passaggio dalla lettera allo Spirito. E’ la pedagogia della fede. :e chiusure evangeliche credo si possano esprimere nella catena di ferro; Gesù, invece, è la catena dell’amore. Le scelte devono essere animate e guidate dall’amore.
C’è una dottrina tradizionale che ci parla di un monachesimo interiorizzato e occorre riproporla sempre alla chiesa: Nella storia c’è stata una preoccupazione di “monasticizzare” la chiesa. Per alcuni risvolti medioevali, il monastero era l’ancora di salvezza; al di fuori di esso non c’era salvezza.
Questa tesi impoveriva la dimensione chiesa-comunione in cui ogni carisma è dono dello Spirito e nessuno può monopolizzare un altro.
Contemporaneamente al processo di monasticizzazione si è avuta una massiccia clericalizzazione, che faceva scorgere nel clero il carisma quasi monopolizzatore della chiesa. Il nostro cammino di fede esige di superare queste “zone” privilegiate a favore della comunione ecclesiale; tutto è dono dello Spirito e gloria del Signore, a servizio dell’uomo, per la crescita nell’amore. E’ vero però che ogni carisma si riflette su un altro, per quella legge di sussidiarietà necessaria per la crescita della chiesa.
Come si riflette dunque il monachesimo nel corpo della chiesa?
Anzitutto la comunità di Benedetto ripropone la centralità della Pasqua.
Il Signore è risorto! La Pasqua, che caratterizza la vita di Benedetto come padre dei monaci, costituisce la nota di identità che il monachesimo propone al credente che vive nel mondo, nell’assillo della città secolare, col rischio di posporre questo valore di fondo ad altri aspetti non essenziali allo stesso titolo.
La centralità della Pasqua educa il cristiano a una visione nuova della vita, della storia, del tempo. Si potrebbe pensare che questa riproposta si esaurisca nella centralità della liturgia, intesa soprattutto come atto cultuale. Ma la Pasqua fa scoprire soprattutto il rapporto tra liturgia e vita, tra culto e impegno operativo. La Pasqua, come rende radicale il monaco nel suo rapporto con il Vangelo, così conduce ogni cristiano a considerare seriamente tutta la provocazione evangelica, per are della vita un segno del Regno che già opera tra di noi, Regno già inaugurato.
Il celibato monastico, “segno del Regno”, diventa esortazione a scoprire quella legge dell’amore totalizzante a Dio e a i fratelli, che è lo scopo della vita, dovunque e comunque si viva.
I due apoftegmi della vita di Benedetto ( il primato dell’amore espresso nell’episodio della visita alla sorella Scolastica e la catena di Cristo, non quella di ferro) sono molto significativi.
In una società fortemente efficientistica, se non c’è più tanto il pericolo dell’ascesi auto gratificante, emerge la necessità ancor più della riproposta del primato dell’amore, dono pasquale che a Cristo si ispira. E’ l’amore che deve animare ogni nostro impegno. Si pensi al dialogo tra la chiesa a il mondo.
La centralità della Pasqua nella vita di Benedetto, fa superarla dimensione di “fuga dal mondo”, con cui siamo tentati di guardare al monachesimo. Benedetto, invece, viene ricollocato nel mondo della Pasqua, come segno profetico di cieli nuovi e terra nuova. Pare questa una testimonianza di speranza provocata dalla Pasqua per ogni cristiano.
E la Pasqua richiama al primato della Parola di Dio; siamo nell’attesa di cieli nuovi in cui inabita la giustizia. Cristo è risorto e ci ha dato il suo Spirito. Il cristiano si pone come “germe” di vita nuova, “seme” da cui esplode la proposta del Regno, fermento che farà lievitare tutta la pasta.
Insieme alla Pasqua il monachesimo offre la Sacra Scrittura come libro di una costante attuazione, profezia di nuove situazioni, se accettiamo la legge base di ogni interpretazione biblica e la conversione nostra a Cristo Signore.
Il monachesimo di Benedetto ci educa al dialogo, a saper prestare il nostro orecchio a Dio, alla sua Parola e perciò a saper ascoltare anche gli uomini. La Regola di Benedetto si apre con un prologo che può essere preso come “magna carta” della spiritualità cristiana.
“Ascolta figlio gli insegnamenti del maestro, tendi l’orecchio del tuo cuore e volentieri accogli i consigli di un tenero padre e praticali risolutamente per tornare con la fatica dell’obbedienza a Colui dal quale tu ti eri allontanato per l’accidia della disobbedienza. A te pertanto si rivolge la mia parola.” (Prologo della Regola)
In tutto il prologo c’è questo dialogo continuo tra Dio che parla e il figlio che ascolta. Dio parola attraverso la Scrittura che “ci sveglia e dice: è l’ora di alzarci dal sonno.. Oggi se udite la sua voce non indurite il vostro cuore… Siano dunque la fede e la pratica del bene le armi cinte al nostro fianco e, guidati dal Vangelo, incamminiamoci per le sue strade: saremo così degni di vedere Colui che ci ha chiamati nel suo Regno” (Prologo).
Ecco la centralità della Pasqua nelle Scritture, con cui Dio si rivolge a noi. Qui si inserisce il rapporto spirituale che la proposta di Benedetto ha avuto con il nostro mondo occidentale, con l’Europa che hanno conosciuto il Vangelo attraverso i monaci.
Se la proposta “lavoro” della Regola ha subito vicissitudini e non è più monopolio della società monastica, né i monaci possono ancora presentarsi come modelli di tecnici del lavoro, come era nell’alto medioevo, ciò è ben comprensibile e non poteva essere altrimenti nello sviluppo dell’autonomia della scienza. I monaci riemergono come “offerta permanente” di un discernimento peculiare sul metodo di lettura della Parola di Dio. La teologia monastica riconosce il primato della Parola, che diviene “dialettica teologica” o “dinamica” attraverso la lectio, meditatio, oratio, contemplatio, evangelizatio.
Per parlare di Gesù è indispensabile che noi entriamo nel suo spirito, e per annunciarlo dobbiamo fare esperienza. Bisogna far sì che la preghiera sia momento espressivo di un cammino di vita e non un qualcosa di aggiuntivo. I Padri dicevano che ci si deve nutrire della Parola come ci si nutre quando si mangia; è lo stesso processo di assimilazione, di nutrimento. E’ il processo che si attua quando noi leggiamo la Parola di Dio, che si fa anche programma di una ermeneutica esistenziale, onde comprendere la Parola e tutte le sue possibilità nell’oggi salvifico.
Si legge la Bibbia nell’unità dei due Testamenti, guidati dal mistero pasquale, che crea e ripropone la comunità ecclesiale nell’oggi storico.
La meditazione va così molto al di là della semplice memorizzazione o riflessione psicologica del mistero salvifico. Essa sta ad indicare quella attenzione costante che è frutto della Parola e un’esigenza dei “segni dei tempi”. Proprio come “Maria-Chiesa” di Luca, che conserva tutte queste cose nel suo cuore meditandole attentamente (D.V. n.8).
Il monachesimo diventa fermento di vita cristiana, perde le sue note specialistiche. Tutti siamo alla scuola di Dio e il monaco presenta la sua esperienza. La preghiera sarà la nostra risposta al dialogo con cui Dio ci interpella: “si faccia di me secondo la tua parola” o l’”eccomi” di Abramo o il nostro “amen”. La contemplazione sarà fioritura di gioia nella verità e canto nelle sue varie forme e momenti; l’evangelizzazione condurrà a proclamare le meraviglie di Dio.
La prima evangelizzazione è così la prima celebrazione liturgica che atta la parola del mistero pasquale. Esso, attraverso il segno sacramentale e la fede della comunità, si staglia nel tempo, facendo del “tempo” il “Tempo”, l’oggi della salvezza, la nostra Eucarestia.
La vita monastica, grazie a un certo ambito di libertà con cui essa si pone nella Chiesa stessa e nella società, può offrire questo spazio a tutti i cristiani onde poter riflettere, con questa preoccupazione, sulla Parola di Dio.
Si può capire a questo proposito, il servizio prezioso che il monachesimo può offrire all’ecumenismo: Il monachesimo è un fatto che precede ogni divisione storica nella chiesa, e per la sua tradizione precristiana, è capace di entrare in dialogo con le grandi religioni non cristiane.
Nel’ambito della lectio e della preghiera (e con esse l’interiorizzazione del deserto), il monachesimo si propone un recupero dell’interiorità cristiana, che si sviluppa per la presenza dello Spirito Santo nel cuore del credente.
La nostra catechesi comune non ha sufficientemente sviluppato tutto l’aspetto pneumatologico della vita spirituale. E’ lo Spirito Santo il vero Signore delle coscienze dell’uomo. E’ lui l’artefice della vita spirituale. Non ci può essere vita monastica senza questo rapporto con lo Spirito Santo; la solitudine monastica si può accettare come momento per esprimere la preponderante presenza dello Spirito in noi. La vita monastica ripropone la possibilità dell’esperienza mistica, del rapporto profondo con Dio.
Nel Nuovo Testamento ci è stato dato lo Spirito Santo del Signore risorto, che ci dice che Dio è Padre; ed è lo Spirito la suprema legge della nostra coscienza. Si sviluppa un metodo di lettura della Parola di Dio e la chiave ermeneutica è l’esperienza spirituale. C’è un testo di Cassiano che afferma che il monaco canta Salmi come preghiera “composta da sé” o almeno dall’autore ispirato composta come prevedendo questo momento esistenziale, concreto e storico.
Così questa Scrittura si compie in quel momento nella vita del monaco “quello che si dice nei Salmi lo vede compiersi in sé”.
Valore della comunità.
In una società sempre più dominata dall’individualismo, dal privato, la comunità monastica si pone come provocazione profetica “Ecco come è bello che i fratelli vivano insieme” – “Dove ci sono due o tre radunati nel mio nome, là ci sono anch’io”.
La comunità monastica benedettina nasce nella chiesa, è costituita segno ecclesiale aperto, ad essa si avvicina il popolo di Dio. Benedetto è amico di vescovi, diaconi, poveri.
“L’ultima goccia di olio nel monastero è per i poveri: Quando il cellerario non vuole dare l’olio al povero, Benedetto, adirato, dice di buttare via l’ampolla sopra la roccia. Ma l’ampolla non si ruppe, e da quel momento non mancò più l’olio in quel monastero”.
La comunità monastica si pone come luogo di accoglienza per fare esperienza della Parola di Dio. Nessuna comunità può monopolizzare i doni di Dio, ciascuna deve essere sussidiaria gli uni agli altri. La comunità si apre dunque al’accoglienza: nell’ospite si riceve Cristo, dirà la Regola. L’ospitalità monastica propone un modello “primitivo” della società (società contadina aperta al fratello), ma con questo ministero dell’accoglienza essa si ispira alla benevolenza con cui tutti siamo accolti dal Padre.
L’ospitalità ripropone la visita di Dio all’uomo, il suo pellegrinaggio di amore. L’ospitalità è così un mistero, che a livello comunitario si esplica e si attua nella chiesa. La comunità ha così un messaggio da “dare” e da “dire”.
C’è dunque una attualità nella proposta di S. Romualdo alla spiritualità benedettina del sec. XI.
La legge del triplice bonum, così enunciata e testimoniata dalla vita dei primi discepoli di S. Romualdo:
- Per quelli che vengono direttamente dal secolo la comunità accogliente, il desiderabile cenobio:
- Per i maturi assetati di Dio, l’aurea solitudine dell’eremo;
- Per quelli infine che bramano di sciogliersi e desiderano dare la vita per Cristo, il Vangelo tra i pagani.
E’ il triplice bene dell’unità dell’esperienza monastica: il cenobio, l’eremo, l’evangelo.
E’ una dinamica eminentemente evangelica degli strumenti della fede che, iniziando dal semplice punto psicologico, giunge fino ad uno sviluppo di alta teologia.
Emerge la comunità come primo sussidio pedagogico / comunità come pedagogia ma anche come incontro con la chiesa-comunione); la comunità non è chiusa in se stessa ma è ordinata alla persona, al suo sviluppo. Nella vita spirituale monastica, criterio di questo cammino è lo spazio di libertà che si può chiamare il bene della contemplazione. La solitudine del’eremo esprime questa realtà. Finalmente tutto è ordinato alla carità perfetta, espressa nella predicazione dell’evangelo.