Il Pastore buono – Omelia di P. Tarcisio Geijer ( Certosa di Vedana, 1968)

Il pastore è tutto per le sue pecore: la loro vita, il loro nutrimento; la loro custodia è interamente nelle sue mani; e se il pastore è buono, sotto la sua protezione non hanno nulla da temere e nulla verrà loro a mancare. Gesù è il pastore buono per eccellenza: egli non solo ama, nutre, custodisce le sue pecorelle, ma dà ad esse la vita e la dà a prezzo della sua. Mediante l’Incarnazione il Figlio di Dio viene sulla terra in cerca degli uomini che, simili a pecore erranti, si sono allontanati dall’ovile e sperduti nella tenebrosa valle del peccato.

Viene come pastore amatissimo che, per meglio soccorrere il suo gregge, non teme di condividerne la sorte. L’epistola odierna ce lo presenta così, in atto di caricarsi i nostri peccati per guarirci con la sua Passione, come disse San Pietro: «Egli stesso ha portato i nostri peccati sul suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia, risanati dalle sue piaghe. Infatti, eravate come pecore erranti, ora siete ritornati al pastore e duce delle anime vostre».  «Io sono il buon pastore – ha detto Gesù – e per le mie pecore do anche la vita». Nell’ufficiatura del tempo pasquale la Chiesa canta ripetutamente: «È risorto il buon Pastore, che diede la vita per le sue pecorelle e si degnò morire per il suo gregge».

Come si potrebbe meglio sintetizzare tutta l’opera della Redenzione? E questa appare ancor più grandiosa quando, dalla bocca di Gesù, sentiamo dichiarare: «Son venuto perché abbiano la vita e l’abbiano più abbondantemente». Veramente egli potrebbe ripetere a ciascuno di noi la questione di Dio al suo popolo per il profeta Isaia: «Che cosa avrei potuto fare per te che non te l’abbia fatto?». Oh, se la nostra generosità nel darci a lui non avesse limiti come non ne ha avuti la sua nel darsi a noi!

Gesù dice ancora: «Io conosco le mie pecore e le mie conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre». Benché non si tratti di uguaglianza, ma di semplice similitudine è però tanto confortante e glorioso per noi vedere come Gesù ami paragonare le sue relazioni con noi alle sue relazioni col Padre. Anche nell’ultima cena ha detto: «Come il Padre ha amato me, così anch’io amo voi». E ancora: «Come tu Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano uno in noi». Questo ci mostra come tra noi – le pecore – e Gesù – nostro Pastore – non vi sia solo un rapporto di conoscenza, ma anche di amore e più ancora di comunanza di vita, simile a quello che esiste tra il Figlio e il Padre.

E a tali rapporti col nostro Dio – tanto profondi che ci fanno partecipare alla sua stessa vita intima – noi giungiamo proprio mediante la grazia, la fede e la carità che il buon Pastore ci ha acquistato dando per noi la sua vita. Ecco dunque, che tra il buon Pastore e le sue pecore si stabilisce un’intima relazione di conoscenza amorosa, tanto intima che il pastore conosce ad una ad una le sue pecore e le chiama per nome ed esse riconoscono la sua voce e lo seguono docilmente. Ogni anima può dire: Gesù mi conosce e mi ama non in modo generico ed astratto, ma nella concretezze dei miei bisogni, dei miei desideri, della mia vita; e per lui conoscermi ed amarmi significa farmi buono, avvolgermi sempre più nella sua grazia, santificarmi. Appunto perché mi ama, Gesù mi chiama per nome: mi chiama, quando nell’orazione, mi apre nuovi orizzonti di vita spirituale, oppure mi fa conoscere meglio i miei difetti, la mia miseria; mi chiama quando mi rimprovera o purifica mediante la sofferenza e quando mi consola e mi incoraggia infondendomi nuove forze e fervore; mi chiama quando mi fa sentire il bisogno di maggiore generosità, quando mi chiede dei sacrifici o mi concede delle gioie e più ancora quando desta in me un più profondo amore per lui. Di fronte alla sua chiamata il mio atteggiamento deve essere quello della pecorella affezionata che sa riconoscere la voce del suo Pastore e sempre lo segue. Così sia!

(Certosa di Vedana, 1968)

2 DOMENICA DI PASQUA 2022

                                                                                                                                                                          1971 (Certosa di Vedana) – P. Tarcisio Geijer

Gesù disse a Tommaso: Beati quelli che pur non vedendo, hanno creduto!” Credere dunque non è vedere. Credere vuol dire partecipare alla vita di Dio. Perciò la luce che si riceve non è opera nostra ma opera di Dio, grazia gratuita. Non che questo dono prescinda dall’uomo. C’è un aprirsi alla fede. Ma tra quell’apertura e il dono di Dio non c’è proporzione calcolabile. Credere è dire di SI’ alla rivelazione di Dio. Sarebbe capir male la rivelazione il considerarla come un gran sistema di verità bell’e confezionato. Essa è prima di tutto un messaggio e una luce: luce di Dio nella nostra vita, sulla storia, sul bene e sul male, sulla morte, su Dio stesso, sul valore ultimo dell’amore. Per proclamare questa rivelazione bisogna pure servirsi di parole, adottare un certo ordine, una certa connessione. Comunque, tutto ciò non deve mai dare l’impressione che la rivelazione di Dio sia un sistema di cose a sé stanti. Si tratta dello sguardo di Dio sulla nostra realtà. Vedere con gli occhi della fede, è vedere con gli occhi di Dio. La fede non è solo un sogno, ma esige anche un impegno. La nostra fede non sopravvive senza di noi. E’ un qualcosa su cui si può fermare la nostra attenzione e la nostra cura, oppure che si può trascurare. Perciò la fede è un impegno. Chi nel suo intimo riconosce la rivelazione di Dio, ha ancora una lunga strada da percorrere davanti a sé. Si tratta di realizzare la più profonda verità cui si crede, ma che non si vede e che spesso non si sente. E ogni volta di nuovo è un salto nel buio. Quando si è soggiogati dalla dolcezza di una tentazione, è un salto nel buio mettere in pratica la fede e dire di no, che è poi un sì, a coloro ai quali si vuol rimanere fedeli, ed è anche un sì a Dio. In un giorno di pioggia, quando si incontrano soltanto contrarietà nella vita quotidiana, richiede una grande dedizione credere nello Spirito santo e, di conseguenza, nella possibilità, per sé e per gli altri di essere buoni. Quando si è sopraffatti da una sofferenza assurda, è atto di gran fede rendersi conto della fedeltà di Dio e del fatto che Gesù ha dato senso alla sofferenza. Il credere non è, perciò, un’inavvertita iscrizione continuata alla Chiesa. Il credere è sempre in relazione con un ADESSO. Credere che Dio, adesso, non può lasciarci soli; che Dio, adesso, può dirigere il corso delle cose; più ancora: che Dio, adesso, col suo amore, può operare un miracolo, come talvolta nella tempesta sul lago: “Ed egli si alzò e rimproverò il vento e disse al mare: Taci, sta fermo! E il vento cessò e subentrò una grande calma. E Gesù disse ai discepoli: Perché mai siete così spaventati? Non avete proprio nessuna fede?” Il credere è una vittoria sulla nostra diffidenza verso il mondo di Dio. Come Tommaso possiamo anche dubitare nella nostra fede: avere tentazioni e difficoltà nella fede. Ma di per sé la presenza del dubbio non pregiudica la certezza della nostra fede. Un dubbio straziante può essere accompagnato da un totale abbandono, da una fede salda come la roccia. Anzi, proprio una fede salda può conoscere spesso seri dubbi. Ma la fede tentata rimane fede intera. La fede genuina è sempre intera. Non si è per metà credenti e per metà increduli. Fintanto uno può dire: “Sì, voglio credere”,  è interamente credente. Mai nessuno ha rinnegato la propria fede senza volerlo. Prima di morire nel suo monastero all’età di ventiquattro anni, Teresa del Bambino Gesù ha conosciuto dubbi terribili sulla fede. Della sua fede era rimasto nient’altro che l’ultimo suo atto di abbandono: “Io voglio credere, aiuta la mia fede”. E così quella giovane divenne santa.

Per finire preghiamo con san Tommaso d’Aquino alludendo alla incredulità dell’apostolo Tommaso del vangelo di oggi:  

Signore, io non vedo, come Tommaso, le tue piaghe.

Pure ti confesso per mio Dio:

fa che sempre più creda in te.

Che in te speri, e più ancor ti ami!

VOLTI DEL MATTINO DI PASQUA –

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Pietro e Giovanni corrono al sepolcro vuoto (E. Burnand 1850)

Al nostro mattino pasquale si affacciano, attraversando il tempo, nella sempre sconvolgente novità dell’annuncio evangelico, volti che ci accompagnano a riconoscere  e confessare il Cristo risorto dai morti. E’ il desiderio e il pianto per la “perdita del Signore” di Maria di Magdala, che solo il Risorto “converte” e fa “voltare”, fino ad affidarle il compito dell’annuncio di Risurrezione; è la ricerca e la corsa al sepolcro dei due discepoli, e la capacità del discepolo amato da Gesù di scrutare e scorgere la sua presenza “attraverso i segni”, è l’ostinazione e la curiosità di “toccare” il Signore di Tommaso, che non si accontenta di “riconoscerlo” per sentito dire…

L’assenza e il desiderio di incontrarlo, la sollecitudine e l’intelligenza del cuore per riconoscerlo, l’ostinazione di farne una esperienza diretta, personale, per poter confessare, ancora oggi: “mio Signore, mio Dio”.

Volti e tracce sul nostro mattino di Pasqua . Il Vangelo di Giovanni ci guida…

Maria di Magdala…

Il primo dei giorni, prestissimo, era ancora buio, Maria Maddalena va al sepolcro – vuoto – e corre da Simon Pietro e dal discepolo che Gesù amava dicendo: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, ma non sappiamo dove l’hanno messo” (cf. Gv. 20,1).

L’assenza è un dramma, è il buio, un mattino non nato. Gesù di Nazaret non c’è,  e con lui non si può stabilire nessuna forma di contatto. L’incontro con questo primo volto della Pasqua – Maria – non è una cronaca ma una sfida nel tempo presente al discepolo di Gesù crocifisso e risorto. L’annuncio dell’assenza: “hanno portato via il corpo del Signore” nella forma del plurale risuona nell’oggi, anche se non ci rendiamo forse conto di quanto possa pesare per la nostra vita questa incapacità di “vederlo”…

Maria di Magdala rimane presso il sepolcro, all’esterno, in pianto. Non vi è nessun movimento; immobilizzata dall’evidenza della morte, incapace di voltarsi. “Vede Gesù ma non sa che è Lui”. Lo vede e non lo incontra. Il Vangelo di Giovanni indugia sul pianto di Maria, sull’incapacità di riconoscere il Signore risorto. E scruta le paralisi di ogni discepolo, in lei, che si ricreano quando la ricerca di Lui non va per la via che egli stesso insegna. Maria non muove i passi verso la vita perché ferita e angosciata da un affetto ferito mortalmente. Il volto del pianto è sul passato, sul già conosciuto, sul buio della notte di morte, sul sepolcro vuoto, sulla certezza che “l’abbiano portato via”… Maria ha visto ciò che vediamo anche noi- nel momento dell’Eucaristia. Nei simboli della descrizione evangelica il posto occupato dal cadavere di Gesù è sostituito da un annuncio trascendente (angeli in vesti bianche). Nel luogo del cadavere c’è un annuncio!

“Perché piangi”? la domanda di Gesù è come un piegarsi attento e sollecito a rompere il circolo vizioso del senso di morte che prende di fronte a una perdita considerata ormai irreparabile. E’ un invito a rimettersi in cammino, anche se Maria volta le spalle al “mattino della Pasqua”, non riconoscendo la luce del Risorto che le parla. Lo interroga: “se l’hai portato via tu, dimmi”… Il suo amore non basta a riconoscerlo. Gesù stesso, chiamandola per nome, la invita a “trasfigurare” il suo amore, il suo sguardo accecato dal pianto. Occorre “convertire” il desiderio della ricerca, il nostro stesso sguardo, accogliere un legame con il Cristo che “sale al Padre” (Gv. 20,17); il mistero della Risurrezione chiede il cambiamento radicale del nostro “modo di cercare” il Signore.

Gesù consegna un “ordine”: “va’ dai miei fratelli e dì loro: Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Il Risorto insegna a Maria come lo si deve cercare e solo ora può annunciare: “Ho visto il Signore”! (20,18).

I due discepoli…

Alla notizia di Maria: “hanno portato via il Signore dal sepolcro, ma non sappiamo dove l’hanno messo”, due discepoli  Simon Pietro e il discepolo che Gesù amava “partono e vanno al sepolcro. “Correvano insieme, loro due. Ma l’altro discepolo corre avanti più veloce di Pietro. Arriva per primo al sepolcro. Si china, scorge le bende per terra. Ma non entra. Anche Simon Pietro arriva al sepolcro. Entra e osserva le bende per terra, e il sudario per coprire il capo, non per terra con le bende, ma a parte, piegato in un angolo. Entra allora anche l’altro discepolo, quello arrivato per primo al sepolcro: ed ecco, vide e credette” (Gv. 20,3-8).

L’evidenza che ha paralizzato Maria provoca nei due discepoli un movimento. La corsa è il simbolo della ricerca. Ma non ogni ricerca porta a “vedere e credere”. Il Vangelo mostra l’amore di una relazione come una “corsa veloce”, un chinarsi a scorgere segni e comprenderne il significato. Uno spazio riflessivo, una sosta su “quel lenzuolo appiattito”. E’ un indizio importante, in contrasto con l’evidenza di un “cadavere rubato”. Il discepolo amato da Gesù scorge un particolare che sembra insignificante; la percezione di chi cerca amando è acuta, sa “vedere e credere”, coglie anche le sfumature che l’evidenza vorrebbe smentire. La relazione viva con il Signore conduce il discepolo ad una certezza: la vita non può dissolversi nella morte dopo aver fatto l’esperienza della figliolanza con il Dio vivente. Noi subiamo la morte, ma Dio non è prigioniero di questa fragilità…

Il discepolo amato vive nel tempo questa relazione “originaria” che restituisce alla vita.

…”Alla sera dello stesso giorno Gesù Risorto prende il posto nella comunità : “stette in mezzo”. Lui, presente, nella sua condizione di morto e risorto, “mostra le mani e il costato”. E’ la manifestazione della pienezza sorgiva della sua condizione; egli sta al centro con la forza della sua morte e risurrezione (cf. Gv. 20,19ss.).

Viene come risorto e “alita lo Spirito su di loro”. Non più il soffio che dà vita al fango (come in Gen. 2,7)ma un soffio che ricrea l’umanità, trascinandola dalla condizione di fragilità a quella della figliolanza e fraternità.

Tommaso detto Didimo…

Didimo significa gemello. Tommaso è gemello della nostra umanità, diffidente, curiosa, ostinata… Tommaso non è con il gruppo quando viene Gesù (cap. 20,24) e non si fida di quelli che gli dicono “abbiamo visto il Signore”. Si parla facilmente di incredulità, ma potremo arrischiare di dire che egli ci provoca a non “fare affidamenti impersonali”… La rivendicazione di Tommaso si esprime con: “Se non vedo, se non tocco, se non metto la mano, allora non credo” (Gv. 20,25)…; non gli basta la mediazione degli altri fratelli.

Gesù lo richiama, pure acconsentendo alla sua richiesta dicendogli “non essere più incredulo, ma credente”. Un altro movimento della ricerca del Risorto, un dinamismo affascinante segnato da un equilibrio fragile, in cui la mediazione dell’annuncio e la responsabilità della ricerca personale sono entrambe  necessarie e sempre da tenere legate.

La fede della chiesa dipende da questo primo gruppo di testimonianza, ma occorre anche una vera audacia, più volte richiamata nelle pagine evangeliche. E’ il coraggio della fede come itinerario esistenziale, dove “tutto di noi stessi” viene chiamato alla risposta, in un rincominciamento radicale, luminoso come la luce del Risorto, che rompe le catene della morte, che asciuga le lacrime, che rilancia umane e ragionevoli diffidenze.

Solo l’affidamento può condurci all’esperienza pasquale, alla confessione: “Signore mio, Dio mio”. E’ un legame inscindibile, personale, che ci porta oltre al desiderio di “toccare, di investigare… Tommaso ha creduto. E’ la beatitudine più grande, e questa è donata.

La cecità del pianto di Maria di Magdala lascia il posto alla luce, in questo mattino di Pasqua. I discepoli oggi, confessano che il Signore risorto è presso il Padre e al contempo “con noi”, nell’assemblea credente, come mediazione assoluta, da cui discende la forza della risurrezione. Noi ci accostiamo non con la pretesa di un contatto fisico, ma con l’affetto e la responsabilità, con la sollecitudine della ricerca che si affida a Gesù risorto. “Signore mio, Dio mio”. E’ la confessione che ci riconosce “beati”, perché credenti, pur senza aver visto!

(F.C.)