Offriamo alla lettura le due lectio-studio del prof. Lorenzo Biagi, che dovevano essere tenute nella seconda e nella quarta Domenica di Quaresima 2020.
UNA RIVOLUZIONE ANTROPOLOGICA.
Uscire dall’individualismo verso una nuova fioritura dell’umano
In un certo senso e per alcuni aspetti, la nostra moderna valorizzazione dell’individuo sarebbe inconcepibile senza la novitas cristiana, che sul piano antropologico introduce, afferma e promuove ad un tempo l’eminente dignità dell’essere umano e la sua libertà, da subito proiettata nel ‘dramma’ della sua assunzione di responsabilità. Essere libero in altre parole significa prendere posizione nei confronti di noi stessi per pro-gettarci in una scelta di vita. Scelta di vita che renderà palese l’autenticità o meno del nostro rapporto con Dio, con gli altri e con il mondo, sia storico che ecologico.
Secondo Hannah Arendt, il problema dell’uomo risulta inestricabile ed inspiegabile senza un’apertura di trascendenza, comunque essa si configuri. Il suo stesso essere diventerebbe un incubo e una prigione. Un vicolo cieco. Ma il secondo elemento della novitas antropologica cristiana è che l’uomo è l’essere intrinsecamente e costitutivamente sociale. Ma – si dice – questo l’avevano visto anche gli antichi. Ed è vero. Ma fino a un certo punto, poiché ciò che prevale nella riflessione arcaica è piuttosto la concezione dell’uomo come dilatato nelle forze cosmiche e pienamente ‘sciolto’ nell’olismo della stessa vita cosmica. La tradizione ebraico-cristiana trae fuori l’uomo dalle forze indistinte del cosmo da una parte per farne un essere unico e dall’altra per farne un essere che senza socialità non è nulla, anzi, è esposto alla morte. La Gaudium et spes esprime nitidamente questo passaggio: “L’uomo per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti” (n.12). Consapevolezza di sé (ossia di essere anzitutto un enigma per se stesso, la cui chiave risiede al di fuori di sé) e intrinseca socialità (ossia è il suo stesso statuto ontologico ad essere sociale: essenziale socialità dell’uomo), costituiscono i due vettori dell’antropologia cristiana, così feconda per lo sviluppo intero della nostra civiltà occidentale e delle sue conquiste in materia di crescente valorizzazione e riconoscimento dell’eminente dignità degli esseri umani. Ahimé, sempre affermata e nello stesso tempo sempre tradita.
Il grande filosofo tedesco Juergen Habermas, ha scritto che “per l’autocomprensione normativa della modernità il cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L’universalismo egualitario – da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, autonoma condotta di vita ed emancipazione, coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e democrazia – è una diretta eredità dell’etica ebraica della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore. Questa eredità è stata continuamente riassimilata, criticata e reinterpretata senza sostanziali trasformazioni. A tutt’oggi non disponiamo di opzioni alternative. Anche di fronte alle sfide attuali della costellazione postnazionale continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne (J. HABERMAS, Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano2004, pp. 128-129). E questo riconoscimento da parte di un grande pensatore, per altro non credente, lascia intendere e intuire tutta la portata e gli effetti dell’architettura etica e antropologica della tradizione ebraica e cristiana, giustamente collegate dal filosofo tedesco.
Ci sarebbe da chiedere se chi si dice cristiano oggi, sia lui per primo consapevole di questa eredità diventata normativa per l’autocomprensione della modernità, dove il cristianesimo non è solo un precedente o un catalizzatore ma la sorgente al quale continuiamo ad alimentarci, magari senza saperlo…
Tuttavia, dobbiamo dedicare attenzione ad un processo storico e culturale, iniziato più o meno quattro secoli fa, vale a dire il processo socio-culturale (che ha finito in realtà per colonizzare ogni aspetto della nostra vita e del nostro essere) dell’individualismo che dalla modernità ha radicalizzato e infine dilapidato tale eredità. Anche a questo proposito, va segnalato che sempre la Gaudium et spes al n. 30, si accorge dell’affermarsi di questo processo e dei suoi effetti negativi, e afferma che occorre decisamente. Infatti il testo inizia in maniera tanto decisa quanto ampiamente silenziata nella nostra formazione cattolica: Occorre superare l’etica individualistica. E si può leggere con preveggenza che “la profonda e rapida trasformazione delle cose esige, con più urgenza, che non vi sia alcuno che, non prestando attenzione al corso delle cose e intorpidito dall’inerzia, si contenti di un’etica puramente individualistica. Il dovere della giustizia e dell’amore viene sempre più assolto per il fatto che ognuno, interessandosi al bene comune secondo le proprie capacità e le necessità degli altri, promuove e aiuta anche le istituzioni pubbliche e private che servono a migliorare le condizioni di vita degli uomini. Vi sono di quelli che, pur professando opinioni larghe e generose, tuttavia continuano a vivere in pratica come se non avessero alcuna cura delle necessità della società. Anzi molti, in certi paesi, tengono in poco conto le leggi e le prescrizioni sociali. Non pochi non si vergognano di evadere, con vari sotterfugi e frodi, le giuste imposte o altri obblighi sociali. Altri trascurano certe norme della vita sociale, ad esempio ciò che concerne la salvaguardia della salute, o le norme stabilite per la guida dei veicoli, non rendendosi conto di metter in pericolo, con la loro incuria, la propria vita e quella degli altri. Che tutti prendano sommamente a cuore di annoverare le solidarietà sociali tra i principali doveri dell’uomo d’oggi, e di rispettarle. Infatti quanto più il mondo si unifica, tanto più apertamente gli obblighi degli uomini superano i gruppi particolari e si estendono a poco a poco al mondo intero. E ciò non può avvenire se i singoli uomini e i gruppi non coltivano le virtù morali e sociali e le diffondono nella società, cosicché sorgano uomini nuovi, artefici di una umanità nuova, con il necessario aiuto della grazia divina”. Tanta concretezza e lungimiranza, tanta attualità (si pensi a quel richiamo alla salvaguardia alla salute…) e franchezza, possono essere riassunte solo nel termine cristiano di ‘profezia’.
1. La doppia faccia dell’individualismo
Secondo il filosofo canadese Charles Taylor la civiltà occidentale moderna è caratterizzata da tre motivi di crisi: l’individualismo, il primato della ragione strumentale, il declino della partecipazione attiva alla vita democratica con l’avvento di un ‘dispotismo morbido’. Il primo elemento sarebbe in realtà quello portante e gli altri due ne sarebbero conseguenze. Dell’individualismo Taylor distingue due facce: la faccia deteriore, rappresentata dalla semplice disgregazione dei legami comunitari premoderni che si verifica in tanti casi di sradicamento di massa legati all’emigrazione o all’urbanesimo e la faccia più promettente, rappresentata dalla richiesta di un riconoscimento della propria dignità di persona, ove la dignità è intesa come qualcosa di diverso dall’onore delle società premoderne in quanto la dignità spetta a tutti, mentre l’onore può essere, per definizione, solo di qualcuno.
Alle radici dell’individualismo starebbe l’ideale dell’autenticità, ideale secondo il quale ciascuno è chiamato nella propria vita a realizzarsi, cioè a seguire una sua vocazione, ad ascoltare la propria voce interiore, ad essere fedele a una propria ‘chiamata’ più intima. L’individualismo che si è di fatto affermato rappresenta invece una versione degradata di questo ideale, una versione per la quale la realizzazione di sé è al di sopra di ogni cosa e i legami con gli altri hanno importanza solo in quanto noi decidiamo di conferirgliene in vista della nostra auto realizzazione, vera parola magica dell’individualismo dei nostri giorni. La predominanza della versione chiusa dell’individualismo ha avuto come esito l’impoverimento del quadro dei significati della nostra vita. “Questa perdita di senso era legata a un restringimento. Gli uomini perdevano la visione più ampia perché si concentravano sulle loro vite individuali. (…) Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato, e le allontana dall’interesse per gli altri e la società. (…). Ciò che occorre spiegare è ciò che è peculiare della nostra epoca. Il punto non è soltanto che gli esseri umani sacrificano i loro rapporti… per inseguire le loro carriere: qualcosa del genere è forse sempre esistito. Il punto è che oggi molti si sentono chiamati a far questo, sentono che debbono comportarsi così”[1]. In particolare Taylor mette a fuoco l’individualismo dei moderni, che con il tempo si è irrigidito fino a degenerare in vero e proprio “narcisismo culturale” (secondo Christopher Lasch), o anche (secondo Allan Bloom) fino a incorporare il “relativismo”, cioè fino al favorire il venir meno degli orizzonti morali. E’ la figura del Narciso contemporaneo che riconduce tutto al “mio”, facendo alleanza con il detto sofista: “Io sono la misura di tutte le cose”, tutto va misurato con il metro del “mio io”. In questo scenario, nota Taylor, la ricerca di un bene comune e del consenso su dei valori fondamentali diventano imprese impossibili, e la democrazia non può far altro che ridursi ad una funzione procedurale.
Il punto estremo è dato dal fatto che questo lato oscuro dell’individualismo è culminato nel narcisismo, come aveva ben intuito C. Lasch, ossia nella perdita di noi stessi. Infatti, “l’emergere del narcisismo significa una perdita di se stessi, molto più che una forma di auto-affermazione. Implica un’identità minacciata dallo spettro della disintegrazione e da un senso di vuoto interiore. Per evitare confusioni, quella che qui chiamiamo cultura del narcisismo potrebbe meglio essere definita, almeno al momento, come cultura della sopravvivenza. La vita quotidiana ha iniziato a conformarsi alle strategie di sopravvivenza tipicamente necessarie a chi vive situazioni estreme. Apatia selettiva, disimpegno emotivo dagli altri, rinuncia al passato quanto al futuro, determinazione a vivere un giorno per volta –queste tecniche di autogestione emotiva, forzatamente spinte agli estremi sotto la spinta di condizioni estreme, finiscono per plasmare anche la vita di persone ordinarie che vivono in situazioni apparentemente ordinarie, all’interno di una società burocratica che viene percepita, sempre più, come un capillare sistema di controllo totale”.
2. Individuo e libertà libertaria
Non abbiamo qui lo spazio per ripercorrere tutta la parabola della ‘perversione’ individualistica, che ha distorto le fonti ebraico-cristiane, e che ha finito per plasmarci fino ad oggi. Tuttavia l’intuizione che risiede sullo sfondo del testo conciliare appena citato, consiste nell’aver colto la deviazione-distorsione individualistica che a partire dalla modernità è stata impressa all’eredità antropologica cristiana. Infatti, l’idea moderna dell’autonomia del soggetto morale viene spesso intesa non nella linea rigorosa di Kant, ma in una prospettiva libertaria. La libertà individuale, quella che deriva interamente e totalmente dalla soggettività, viene promossa al rango di riferimento primo e ultimo: a ciascuno di decidere in merito al suo bene, senza alcuna interferenza ‘esteriore’, quindi senza eteronomia e influenza sociale o religiosa. A ciascuno quindi di valutare e giudicare in conoscenza di causa se e come la sua vita vale la pena di essere vissuta, se possiede ancora una dignità; ma allora la dignità è definita come il giudizio che ciascuno emette su di sé, sull’immagine che ha di sé stesso, sulla percezione del valore della sua esistenza. Il libertarismo, più che il liberalismo, benché suo erede diretto, rivendica per ognuno il diritto di decidere di se stesso in modo sovrano, senza interferenze esterne, per cui la dignità, incrociata con la valutazione soggettiva, si identifica con il giudizio o la scelta di ciascuno, elevati al rango di norma ultima e insuperabile. La dignità non si identifica più con la capacità di ragionare o elaborare un progetto sensato su sé stessi, con i diversi attributi caratteristici di un ‘proprio dell’uomo’ (desiderio, simbolo, linguaggio, memoria, ragione, collaborazione, socialità…), bensì con il modo in cui ciascuno valuta se stesso, con il giudizio che ciascuno emette in modo sovrano sulla sua attitudine a vivere o sulle scelte di vita che lo riguardano. La dignità dipende dalla valutazione soggettiva e non da un insieme di qualità determinabili e tanto meno dalla ricchezza delle relazioni interpersonali.
Oggi queste forme di pensiero libertaristiche e individualistiche generano necessariamente grandi dilemmi a livello politico e sociale. Ed è un peccato che in certo cattolicesimo esse siano state giocate solo nel campo, ad esempio, delle questioni bioetiche (in modi per altro inappropriati, ideologici e integralistici) e non piuttosto anche nel campo sociale, economico, politico ed ecologico. Infatti le società democratiche – ha osservato il gesuita francese Paul Valadier – conoscono un vasto pluralismo morale, il che è un dato di fatto e un bene al tempo stesso, nonostante che questo sollevi molti dubbi sul senso dei valori condivisi e anche sulla loro esistenza in un consenso comune; ma, cosa più importante e nuova, esse vogliono conformare il diritto a questo nuovo approccio etico, imposto dalle prospettive libertarie che abbiamo appena ricordato. Esse non contestano direttamente, ad esempio, il concetto di dignità, ma gli conferiscono un contenuto diametralmente opposto a quello che gli conferiva sia la tradizione kantiana sia la tradizione cristiana. Lo si nota in modo particolare nell’appello, oggi dominante, al ‘sovranismo’ ante litteram della libertà individuale.
3. Miti che non funzionano più…
L’attuale mancanza di orizzonti collettivi parte dalla crisi di una mitologia che ha animato in passato i processi di sviluppo socio-economico. Secondo gli ultimi rapporti del Censis sul nostro paese, una possibile rassegna dei miti che non funzionano più contempla: un presentismo ormai senza memoria né futuro, una spinta all’emancipazione che oggi appare come sottomissione al moderno e mero conformismo al sistema dominante, l’estinzione del desiderio, la crisi del primato dell’offerta capitalistica di prodotti e servizi, l’esigenza di riconfigurare la figura del padre, la crisi dell’autorità della legge e delle istituzioni, infine la crisi della lunga parabola dell’individualismo. Solo qualche sottolineatura su tre miti che non funzionano più.
a)Il rattrappimento nel presente
Senza senso del futuro né trascendenza, sembriamo sempre più imprigionati nel presente. Un rattrappimento che ha radici profonde: la crisi della relazione con l’altro (e l’Altro), il disfacimento della cultura del dono e del sacrificio in vista del bene comune, la crisi del sacro e la labilità dei suoi surrogati (l’esoterismo o la new age), la rimozione del senso del peccato (individuale o sociale che sia), la negazione della creaturalità in ragione del primato dell’Io, la rottura della continuità fra vita terrena e vita eterna. Stare solo sul presente non fa bene né alla persona né alla società. Come sappiamo ma anche come ci siamo dimenticati, ‘il presente non basta a se stesso’.
b)Tra rinserramento individuale e indifferenza collettiva
L’individualismo non ha generato persone veramente libere, responsabili, capaci di autenticità e di vera realizzazione personale. E neanche di vera autonomia, quella responsabile e anticonformistica. Soprattutto, l’individualismo non ha affatto generato una socialità all’altezza della nostra costituzione essenziale. E’ il paradosso di tutta la nostra parabola moderna: pensare di poter ricavare una vera vita insieme prendendo le mosse dal principio individualista, ossia dal principio più asociale che ci sia! Esso è stato piuttosto il vero incubatore della nuova fatica di diventare ed essere se stessi. Lo prova la diffusione a macchia d’olio delle odierne grandi patologie individuali, sia quelle di evidente rinserramento individuale interno (depressione, anoressia, dipendenza da droghe, fino al suicidio), sia quelle di crescente indifferenza alla vita collettiva (stanchezza di vivere, rimozione delle responsabilità, crisi della empatia nelle relazioni interpersonali). L’individualismo ha incistato in noi i sintomi della crisi antropologica che caratterizza la società attuale. E ci spinge a interrogarci alla ricerca di nuovi pensieri e nuove pratiche per dare contenuti di senso di fronte allo spaesamento generale, per avviare un percorso di autocoscienza collettiva intorno ad alcuni temi fondamentali per la convivenza.
c)La crescente sregolazione delle pulsioni
La crescita dell’aggressività minuta e diffusa, dovuta a una crescente sregolazione delle pulsioni, ha effetti sociali molto visibili e di pesante influsso sul vivere collettivo, dalla corruzione del linguaggio alla distruttività dispiegata (i fenomeni di bullismo, le frange di ultras attivi nelle piazze e negli stadi, i crimini inspiegabili, le tragedie intrafamiliari e i femminicidi). La profonda crisi sociale che stiamo attraversando appare sempre più di natura antropologica, con un disagio individuale e un ripiegamento collettivo che non si lasciano interpretare attraverso i consueti schemi dell’analisi sociale ed economica.
4. Individualisti pentiti?
L’eccesso di individualismo e della “libertà di essere se stessi” ad ogni costo ha infranto le figure simbolo dell’autorità: il padre, l’insegnante e il sacerdote. Ma il disagio antropologico di questa fase è dovuto allo stesso tempo al fatto che non funzionano più come in passato i miti trainanti del soggettivismo, che riescono sempre meno a mobilitare le persone: la spinta acquisitiva attraverso i consumi, il fare impresa individuale, la fiducia in un benessere sempre crescente. L’eccesso di individualismo e della “libertà di essere se stessi” ad ogni costo non ha soltanto svuotato i riferimenti simbolici dell’autorità e dell’esemplarità, alla fine ha svuotato il senso stesso dell’essere persona e della convivenza.
Dopo il ciclo dell’individualismo, dunque, ci sarebbe la riscoperta delle relazioni? La voglia di essere padroni della propria vita, lo slancio delle ambizioni personali, il bisogno di auto-affermarsi, di inventare il proprio destino e di soddisfare i propri desideri, sono stati i valori che hanno caratterizzato la nostra storia recente e su cui si è costruito lo sviluppo del Paese dagli anni ’50 in poi. La spinta alla valorizzazione personale, all’iniziativa personale, ha certamente liberato enormi energie, ha favorito la crescita di un sistema produttivo fatto di centinaia di migliaia di imprese e ha sostenuto la vitalità di un mercato capace di esprimere sempre nuove domande. Oggi quello sviluppo sembra progressivamente rallentare, la moltiplicazione dei soggetti ha portato a uno sfarinamento delle capacità decisionali nelle questioni di interesse collettivo e l’autonomia dei comportamenti è sfociata in forme di disagio antropologico. Per il futuro, i valori che faranno l’Italia e gli italiani sembrano poggiare sempre meno sulla rivendicazione dell’autonomia personale e sempre più sulla riscoperta dell’altro, sulla relazione e la responsabilità. Sono valori che in questa fase fanno emergere scintille di speranza che vanno però coltivate, alimentate e potenziate, affinché possano diventare un nuovo motore di crescita culturale, sociale, politica, economia e civile del Paese. Insomma, lavorare per un nuovo ethos pubblico nel nostro paese.
In questo ciclo, tuttavia, dovremo ‘pensare’ cosa aprirà l’esperienza che stiamo vivendo, pesantemente colonizzata dal Covid 19…
5. Un umanesimo nuovo e altro
Ciò che avvertiamo come sincero, è il desiderio di una nuova umanità. Una nuova humanitas. Di una nuova autocomprensione dell’essere umano e dunque di noi stessi. Non se ne può più degli individualismi che lacerano continuamente la nostra umanità e socialità. E per di più non se ne può più di quell’individualismo cresciuto negli ultimi anni nella figura del delirio di onnipotenza, di un narcisismo coniugato con il cinismo, di un io enfatizzato e smisurato nei social, nella cultura del selfie. L’io dell’individualismo proprietario, l’io acquisitivo e rivendicativo, l’io del narcisismo, l’io del cogito, l’io come autoaffermazione di sé, l’io del sovranismo (politico e psichico) che pare essere stato l’ultima prova di quanto il ripiegamento individualistico sia mortifero, hanno veramente lacerato quell’humus condiviso che solo può far fiorire la nostra humanitas.
Ma cosa importa, cosa vale, cosa conta veramente in un tempo dove tutte le grandi narrazioni del mondo – come ripete l’adagio postmoderno – sono evaporate? Come si può vivere bene e spendere bene la propria vita, senza cadere nel circo iper-edonista, senza perdersi, senza inseguire l’idolo narcisistico dell’espansione senza misura e della frenesia della “mobilitazione totale”? E senza la sua ideologia del benessere, del corpo obbligatoriamente in forma, dell’essere sempre giovani, del denaro come unico generatore simbolico, della celebrazione narcisistica della libertà?
Ma vi è anche una domanda più radicale: la prospettiva di un ritorno alla radici umanistiche del cristianesimo in un’epoca che sembra ridurre a carta straccia ogni riferimento alla dimensione etica e insostituibile della responsabilità singolare, è ancora perseguibile? E come? Umanesimo: categoria preziosa ma forse compromessa? Quello che sentiamo sia ancora in modo incerto e barcollante è che abbiamo bisogno di rifondare un altro umanesimo, non egologico, non antropocentrico, non narcisistico. Siamo stanchi, in altre parole, della nostra “società degli egosauri”[2].
La questione è impegnativa ed esigente, con modestia mi limito a qualche spunto o nucleo da elaborare ulteriormente…
5.1. Umanesimo dell’altro uomo
Facciamoci guidare da Emmanuel Lévinas: l’umanesimo occidentale è diventato un “collocamento di ‘anime belle’ nella peculiare ambiguità delle belle lettere, senza presa a fronte di una realtà di violenze e di sfruttamento”. E la ragione di questo fallimento dell’umanesimo occidentale è dovuta al fatto che fin dal suo principio esso ha fatto perno sull’io. Sull’identità. Sul Medesimo. Il nuovo umanesimo – ci dice Lévinas – potrà nascere solo se invece di partire dall’io, prenderà le mosse dall’altro che si presenta e si impone per forza propria, come un’autentica trascendenza. Questa trascendenza è espressa da Lévinas con il termine volto. Volto sono gli occhi che nemmeno la potenza omicida può spegnere, è lo sguardo che mi fissa, di fronte a cui sono costretto ad abbassare il mio. L’altro in cui si è imbattuto Lévinas è l’uomo biblico, il povero, lo straniero, l’emarginato, il volto del servo sofferente di Isaia. E dopo l’incontro con quel volto non si può essere più come prima. E’ l’incontro con quel volto che ci costringe ad uscire dal primato dell’essere dell’io, per mettere in primo piano l’altro che mi viene incontro. Il nuovo umanesimo dunque dovrà prendere le mosse dal fatto che “nessuno si può chiudere in sé stesso: l’umanità dell’uomo, la soggettività, è responsabilità per gli altri, estrema vulnerabilità”[3]. La responsabilità e non la stima di sé o l’auto realizzazione, sarà la categoria chiave del nuovo umanesimo. E’ chiaro che secondo Lévinas non si tratta solo di riaggiustare il principio cartesiano “penso, dunque sono” bensì di rovesciarlo nel nuovo cammino del “vivo, accolgo, amo, dunque sono”.
Questo implica una ‘rivoluzione’ autentica: l’umanesimo dell’altro uomo comporta niente di meno che abbandonare tutte le categorie e le articolazioni che finora abbiamo utilizzato per ‘pensare’ e ‘fare umanità’ fino ad oggi. Va rivoltata tutta la nostra educazione, la nostra etica, la politica, l’economia, il modo di pensare e di autorappresentarci…
5.2. Umanesimo dell’incontro e dialogico
“La scoperta dell’alterità è quella di un rapporto, non di una barriera”, ha scritto il grande antropologo Claude Lévi-Strauss. La densità di questa osservazione, tanto concreta quanto autentica, ci porta ad arricchire il nuovo umanesimo con un’altra categoria del vissuto quotidiano, che è quella dell’incontro. E’ nell’incontro che un rapporto accade e inizia a fiorire, grazie a un tratto peculiare dell’essere umano: il linguaggio e la parola, ossia il dialogo. In altre parole, “è questa condizione di dialogo che è costitutiva della persona, poiché implica reciprocamente che io divenga tu nell’allocuzione di chi a sua volta si designa con io… nessuno dei due termini può concepirsi senza l’altro” (E. Benveniste). E’ nel dialogo che l’essere dell’uomo viene alla luce e viene alla luce non prima di tutto come un io ma come l’essere di parola in una condizione intrascendibile di rapporto con l’altro, di scambio verbale, di comunicazione e di discorso. Ma l’incontro nella sua essenza significa proprio questo: che nessuno si può concepire senza l’altro[4].
L’incontro significa giungere alla presenza di qualcuno o qualcosa, imbattersi, affrontare, ma all’origine si tratta di due o più enti che sono rivolti gli uni verso gli altri senza sbattersi addosso. Convergono in qualcosa di comune, e si soffermano. Quello che il termine potrebbe indicare è un moto che ha dell’aggressivo quando invece non lo è per forza, anzi. “Poi, se si guarda sui dizionari, l’analisi della casistica d’uso di questo verbo è sterminata: prende ora la forma del transitivo (incontro un cinghiale), ora dell’intransitivo pronominale (il sindaco si è incontrato con il comitato), ora del riflessivo reciproco (si sono incontrati al bar), ora dell’uso assoluto (il film incontra molto). Ciò che fa davvero la differenza è conservare la consapevolezza dell’immagine fondamentale del verbo, con tutta la sua grazia: una convergenza nell’istante”.
5.3. Un pensiero esodico
“L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale”: è una affermazione di Papa Francesco, e ci apre la strada. Il nuovo (ma antico) punto di vista del cristianesimo alla costruzione di una nuova antropologia, risiede nell’avvicinare l’umano non da un principio di sostanza ma dal movimento dell’esodo. Possiamo tradurlo in questi termini: il pensiero del nuovo umanesimo non potrà più essere quel pensiero che parte dall’autocertificazione per poi ricavare tutto il resto. Un pensiero narcisistico e quindi autoreferenziale. Piuttosto sarà un pensiero esodico[5]. Che rinvia direttamente alla fonte ebraica. Secondo una celebre frase del rabbino di Roma Eugenio Zolli, battezzato dopo la seconda guerra mondiale, l’ebreo non gira le spalle, va solo avanti. Il pensiero biblico d’altra parte – come ha notato Marco Campedelli – è il grido della terra che rompe il muro di un pensiero teologico aristocraticamente chiuso su se stesso e avvitato sul principio dell’io. La teologia alternativa, per far parlare la parola stessa, rimette al mondo, fa nascere di nuovo l’altro – alter-nativa. Mette al centro di se stessa l’altro. Ma mette al centro una alterità che riguarda per primo Dio. Dio non più come fondamento di un principio identitario escludente, ma Dio come principio di alterità ospitale e conviviale.
Per l’appunto non un pensiero come quello che la statica metafisica occidentale ha generato, bensì un pensiero che assume l’esodo del popolo ebraico e l’esodo di Gesù, come proprio paradigma e modello di riferimento. Se vogliamo parlare di ‘umanesimo cristiano’, esso non potrà più agganciarsi alla metafisica greca ma al pensiero ebraico, che fin dall’inizio è un pensiero della promessa e quindi del cammino e dell’impegno. Un pensiero in uscita è un pensiero della Speranza. E un umanesimo cristiano sarà anzitutto l’umanità che il cristiano mette in forma nella storia sociale. Ed è la forma di una umanità in uscita: da sé, dalle proprie sicurezze, dalle proprie cittadelle ideologiche, dalle proprie strutture di autorappresentazione e di rappresentazione dell’altro. Ma qui vi è un cambio di prospettiva decisivo rispetto all’umanesimo della modernità. In quell’esperienza, non soltanto negativa ma ricca di fermenti e di aperture, il timbro culturale del pensiero era stato quello di mettere in forma un umanesimo cristiano, dove albergava una ambiguità di fondo: fare del cristianesimo un umanesimo e allo stesso tempo inculturare il cristianesimo in una forma umanistica già ricca in sé di nuovi orizzonti ma anche di condizioni culturali pregiudicanti? Azzardo una pista di lavoro: il cristianesimo deve andare oltre il paradigma dell’inculturazione e approdare al modello del ‘formare l’uomo in Cristo’ (D. Bonhoeffer). Fare umanità a partire dal modello di Gesù e dal suo stile[6].
L’approccio di Francesco muove per l’appunto da un’altra prospettiva: dall’umanità del cristiano. In altre parole, il nuovo umanesimo potrà scaturire dall’umano che i cristiani saranno capaci di mettere in forma nelle dinamiche odierne dell’umanità. Il cristianesimo diventa generatore di umanità. Un cristianesimo che fa fiorire nuova umanità. Ecco mi sembra questa la portata della nuova sfida antropologica per coloro che si dicono cristiani oggi. A quale umanità siamo chiamati a dare forma? Almeno il punto di partenza ci viene indicato: il paradigma riflessivo e il modello pratico dell’esodo. Del disporsi in uscita, prima di tutto dalle proprie ragioni per “comprendere le ragioni dell’altro”. E qui l’esodo è necessario, continua Francesco, “altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. E’ fratello” (Discorso alla chiesa italiana, Firenze 2015).
5.4. L’uomo ‘in’ Cristo
Dom Firmino nelle sue meditazioni (alle quali rinvio) ci ha esplicitato bene quello che anche Romano Penna definisce come “il dato luminoso del paolinismo”, ossia l’essere in Cristo. In termini essenziali, al cuore di Paolo e del paolinismo vi è la libertà dalla legge. Paolo insegna che ciò che conta nel mio rapporto con Dio, in prima battuta non è la morale, ma è la grazia di Dio stesso, in Gesù Cristo. Io divento giusto davanti a Dio non per ciò che faccio “io”, ma per ciò che Dio ha fatto per me in Gesù Cristo. E la fede è l’accettazione di questo dono di grazia che mi è offerto. Questo insegnamento Paolino si contrappone alla concezione secondo cui sono “io” che costruisco la mia giustizia, la mia santità di fronte a Dio. La costruisco con la mia morale, il mio comportamento, la mia etica e l’osservanza dei comandamenti. Questa è una concezione abbastanza diffusa, che mette in prima posizione la morale. Ma, presa alla lettera, non è la posizione giusta, precisa R. Penna. C’è una frase di Lutero, condivisibile, che spiega bene il concetto. “Non è che noi facendo le cose giuste diventiamo giusti. Ma se siamo giusti facciamo le cose giuste”. Il dato morale, operativo, dell’azione, quindi, è secondario rispetto alla dimensione di “essere”, che è precedente ed è fondamentale. “Essere in Cristo” e ricevere la benevolenza di Dio attraverso Gesù Cristo, prescinde dalla mia moralità. La quale, proprio perché io “vivo” “l’essere in Cristo”, sarà certamente in sintonia con questa meravigliosa realtà. E’ questa il punto costitutivo. E’ questo appunto quello che Penna definisce il dato luminoso del paolinismo.
Cosa può significare per noi questo dato luminoso?
Il far fiorire umanità del cristiano si rivela alla fine un lasciare che Cristo prenda forma in colui che riceve e accoglie questa Grazia. E questo significa ancora una volta rovesciare lo schema tradizionale dell’umanesimo moderno che partiva dall’uomo per andare a Dio e che alla maniera greca finiva per prospettare una specie di divinizzazione dell’uomo. Il processo di umanizzazione paradossalmente non parte dall’uomo, che in quanto tale non approderebbe mai al Dio della rivelazione cristiana (cfr. le meditazioni di dom Firmino con relativi passi paolini, tra gli altrui: Rom 10,20 = Is 65,1: “Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano”; 1Cor 1,20: “Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?”; 2,9: “Ciò che occhio non vide, né orecchio udì …”). Esso invece parte da Dio stesso, a cui soltanto appartiene l’iniziativa di un decisivo incontro misericordioso con l’uomo (cfr. ancora le meditazioni di dom Firmino con i relativi passi paolini, tra gli altri: Rom 5,8: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”; 8,31: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”). La distanza tra Dio e l’uomo viene superata da un atto di grazia proprio di Dio stesso, sovranamente libero. E come nota ancora R. Penna, “ciò che rende possibile un tale capovolgimento di prospettiva è nient’altro che l’essere “in Cristo”, cioè l’essere ormai individualmente inseriti nell’evento escatologico per eccellenza, che è la risurrezione del Cristo crocifisso, il quale “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,10) e con cui si è inaugurata “la fine dei tempi” (1Cor 10,11)”.
note
[1] C. TAYLOR, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994.
[2] Pier Aldo Rovatti, Gli egosauri, Elèuthera, Milano 2019. Il libro ha come protagonisti quelli che il filosofo triestino chiama “egosauri”, ovvero quegli animali mostruosi e normalissimi che stiamo tutti diventando. Sono provvisti di un io abnorme e sono ormai penetrati silenziosamente nel nostro mondo pubblico ma anche nelle vite di ciascuno di noi. Attraversando gli eventi che hanno caratterizzato la scena italiana negli ultimi tempi, la serie di rapide cronache che danno corpo al libro cercano di farci vedere come agiscono, come pensano, come fanno politica, come glorificano se stessi disprezzando gli altri. E soprattutto quali parole stanno facendo circolare, la parola “popolo” per esempio, distorcendole e svuotandole di senso, ma riempiendole di rabbia, di paura e di risentimento. Parole che sembrano essere solo annunci ma che sono già fatti concreti, atti minacciosi, pratiche autoritarie. Parole che stanno ottundendo lentamente la nostra capacità di percepire. E così rischiamo di diventare ogni giorno più ciechi e più sordi.
[3] E, LEVINAS, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, p. 133.
[4] M. DE CERTEAU, Mai senza l’altro, Qiqajon 1993.
[5] Ricco di spunti è l’ultimo saggio di Carmine Di Sante, Dentro la Bibbia. La teologia alternativa di Armido Rizzi, Ed. Gabrielli, Verona 2019. Per Rizzi il “logos” biblico, cioè la visione del mondo, è totalmente diverso da quello filosofico e scientifico. Ritrovare la struttura di pensiero della Bibbia, nel racconto dell’Esodo, (da qui anche il riferimento nel titolo) significa per Rizzi scoprire un Dio che dona all’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, la libertà di amare come lui ama. La teologia di Rizzi è radicalmente “alter-nativa” a quella tradizionale dei trattati classici perché pone al centro non più l’io (vedi la citata società degli egosauri) dell’uomo che ha Dio come oggetto del suo desiderio, ma l’”altro”, con un Dio che si inchina sull’uomo e se vuole entra nella sua vita. Non è che noi saliamo a Dio con i nostri concetti, ma siamo raggiunti da lui, da un Dio della libertà, della gratuità, della misericordia “creatore di un uomo vocato e invocato alla responsabilità dell’amore altrettanto gratuito e misericordioso nei confronti dello straniero, dell’orfano, del povero e della vedova, cioè nei confronti di ogni uomo nel suo essere di bisogno o volto”. Il dato innovativo della teologia rizziana è la lettura dell’evento di Cristo all’interno dell’alleanza del Sinai, tra Dio e l’uomo, integrata dal dono del perdono e la redenzione del peccato. Gesù quindi è instauratore della nuova ed eterna alleanza, della nuova relazione tra Dio e l’umanità, che dovrà obbedire a Dio e amare il prossimo. Così la morte di Gesù è un atto di libera accettazione della volontà di Dio, di obbedienza a Dio e di amore per il prossimo.
[6] Come sta riflettendo negli ultimi anni il teologo C. THEOBALD, Lo stile della vita cristiana, Qiqajon 2015.