FAR FIORIRE L’ESSERE UMANO (L. BIAGI)
PREMESSA E RIPRESA
Nel nostro cammino verso l’uomo, dopo aver posto alcuni riferimenti di lettura e di sfondo a partire dal messaggio evangelico e paolino – dobbiamo ora provare a delineare alcune piste di ‘formazione’ dell’uomo. In altre parole, dobbiamo anche tentare di far emergere il nostro impegno e la nostra responsabilità in ordine a un rinnovato processo di umanizzazione, dato che questo emerge come uno dei principali vettori del tempo in cui viviamo.
Una riflessione-meditazione sull’uomo è sempre anche un “prendersi a cuore di qualcosa”, dove la riflessione-meditazione significa un fermarci a lungo e con intensa concentrazione su un contenuto di vita. Considerare profondamente un problema, un argomento, allo scopo di coglierne l’essenza, indagarne la natura, ricavarne sviluppi, conseguenze e impegni concreti d’azione. Platone, in un suo dialogo, insiste sul fatto che filosofare, riflettere e meditare, vuol dire fermarsi, togliersi dalla fretta e dal fare, per mettere al centro quello che conta. Tutto il contrario del nostro impianto odierno, dove imperano il “pensiero sbrigativo”; il “pensiero corto”; la “razionalità strumentale”; il “pensiero calcolante”; gli “slogans” che “bucano il video” e “toccano solo la pancia”…
La ripresa ora deve prendere avvio da un gesto che deve inaugurare la nostra attenzione all’uomo. Questo gesto possiamo chiamarlo “epoché”, che è l’atto di ‘sospensione dell’assenso’ a quanto ora è in circolazione intorno alle nostre idee, giudizi, affermazioni sull’uomo e sulla vita, è l’atto con cui si pone ‘tra parentesi’ tutto quello che nel mondo vien dato per assodato e certo, si sospende cioè il giudizio d’esistenza delle cose, il quale obbedisce alla preoccupazione di servirsi di esse. Questo atto è un poderoso processo di liberazione dai nostri giudizi, dall’ovvio, dai luoghi comuni e dallo scontato. Da quello che di solito non mettiamo in discussione. Edith Stein però ha compreso bene questo atto di sospensione-liberazione, in un’ottica che qui ci ritorna preziosa: il primo passo che dobbiamo fare è quello di ‘svuotare sé da se stessi’. Creare “il vaso vuoto”, afferma la Stein e fare spazio in sé per l’altro e per l’Altro. Questo significa che dopo cinque secoli di consacrazione del nostro io (dall’individualismo al narcisismo, all’egosauro), ora è venuto il momento di svuotare il nostro io e anche di svuotarci dal nostro io!
Il secondo riferimento-pilastro è quello che abbiamo scoperto fin qui. Il pensiero biblico, dalla prima all’ultima pagina, ci attesta un orizzonte che forse non abbiamo ancora veramente interiorizzato. Ossia che il Dio della nostra tradizione ebraico-cristiana è un Dio ben strano, poiché egli con le sue parole e il suo agire pone ‘praticamente’, storicamente, le condizioni per “una costituzione drammatica dell’essere-soggetto degli uomini, costituzione che si attua proprio attraverso il loro rapporto con Dio”[1] (J.-B. Metz). In altre parole, questo Dio non vuole un rapporto di assoggettamento schiavistico e di sudditanza dagli uomini, né lo provoca, né lo avvalora. Anzi lo combatte e lo denuncia continuamente. Egli vuole che gli uomini escano dalle paure arcaiche e dalle costrizioni di ogni genere; non umilia l’essere-soggetto dell’uomo ma costringe l’esistenza dell’uomo, sempre di nuovo, a diventare soggetto di una storia nuova. E la prova pratica di questa sua volontà, è data dal fatto che egli è il primo e dichiarato antagonista di ogni forma di costrizione e oppressione tra gli uomini stessi. Così che la bibbia ci mostra continuamente che “la lotta per Dio e la lotta per il libero poter-essere-soggetto di tutti si svolgono non diametralmente opposte, bensì proporzionalmente parallele”[2].
E’ impressionante e insieme quanto mai significativo che questo sia anche un argomento storico-religioso. Ossia l’antropologia religiosa ci mostra ripetutamente che l’uomo solo grazie alla religione, al suo rapporto col suo Dio, è giunto a un’identità di soggetto ed è diventato attore di storia. Per cui oggi, dal punto di vista antropologico, è del tutto ragionevole pensare che con il venir meno di una qualche orizzonte religioso, sia entrata in crisi anche la nostra identità umana.
Ma va evidenziato che l’originalità del Dio biblico consiste in un passo ulteriore: creare praticamente le condizioni (creazione, liberazione dalla schiavitù, dieci parole, profezia, preghiera salmica, orizzonte messianico… fino a Gesù e alla sua morte e risurrezione, con l’orizzonte di cieli nuovi e terre nuove…) perché l’uomo risulti libero anche dalla paura del divino, dalle costrizioni religiose, e nel contempo libero anche per non essere egli stesso uno che opprime e costringe il suo simile. E’ un Dio che stringe un’alleanza con l’uomo, tramite il popolo ebraico, il cui contenuto non è un assoggettamento ma un cammino di redenzione e di pienezza. Ora, questo cammino è un cammino di umanizzazione piena (che in Gesù si fa a portata di mano per tutti, e il nostro “essere in Cristo” né è l’inaugurazione) che d’altra parte si fonda sulla paradossale lealtà di Dio. La lealtà di questo Dio infatti non si poggia sulle nostre prestazioni ma sull’obbligo con cui Dio si è impegnato verso l’umanità! L’enigma paradossale della lealtà di Dio verso di noi, è ciò che ci permette un cammino di umanizzazione piena.
Mi sembra che questo deve essere considerato l’approccio e insieme il contributo decisivo che i credenti in questo Dio possono e devono mettere in circolazione nel fare umanità nel nostro tempo. Svuotare il nostro io e partire dal Dio che rende possibile con lealtà la nostra vocazione umana.
- I. La proposta: non partire dall’io individuale ma dal “fondamentale”
Non si dà una conoscenza di noi stessi in maniera diretta, non si dà “una conoscenza di sé immediata, trasparente a sé” (P. Ricoeur), ma sempre in modo mediato, cioè proprio grazie agli altri, e ai segni depositati nella memoria e nell’immaginario simbolico e culturale. Dobbiamo percorrere la via lunga (non quella breve dell’io) degli altri e della simbolica culturale.
- a) il nostro essere è appeso al riconoscimento degli altri;
- b) il nostro essere è invischiato nelle rappresentazioni simbolico-culturali dal modo in cui viviamo.
Il ‘fondamentale’ è duplice
Noi siamo esseri finiti, esseri mancanti, inchiodati a cercare il senso del nostro essere al mondo. Non siamo in grado di rendere ragione di noi stessi ‘da’ noi stessi! Contrariamente a quanto ci siamo costruiti in questi ultimi tempi. Come afferma Edith Stein, “io non sono da me, da me non sono nulla, in ogni attimo mi trovo di fronte al nulla e devo ricevere in dono attimo per attimo nuovamente l’essere”. Allora il primo fondamentale è che io non sono “a partire da poteri che io domino” ma sono da una “donazione anteriore di senso” che mi costituisce sia come soggetto ricevente che come soggetto critico (Paul Ricoeur). E nel pensiero biblico di Dio, noi troviamo appunto l’anteriorità di una parola costituente, la mediazione della scrittura e la storia di una interpretazione scritta e vissuta di un popolo e di una ecclesia, osserva sempre Ricoeur.
Ma proprio perché non siamo da noi, io non mi autogenero e mi autopongo, l’altra faccia del fondamentale è che possiamo fondarci ossia umanizzarci solo grazie a un riconoscimento reciproco. Come dire: siamo tutti nella medesima barca e quindi solo riconoscendoci reciprocamente possiamo avviare un nuovo umanesimo. La nostra identità è sempre dialogica, non un prodotto della chiusura in noi stessi e nelle nostre radici… Solo abbandonando l’io, uscendo dall’io, possiamo nel riconoscimento reciproco incamminarci verso l’uomo. Senza questa “ospitalità universale”, come la chiamava Kant, non è possibile far fiorire l’umano.
- Evidenze antropologiche
E’ grazie a questa fondazione per riconoscimento reciproco che noi possiamo apprezzare alcuni tratti che ci costituiscono, ci contrassegnano, ci distinguono e ci caratterizzano (per esempio rispetto agli animali), ma non ci chiudono e non ci inchiodano come a dei dati di “natura”, leggi naturali. Sono invece “aperti”, “plastici”, affidati alla nostra libertà e responsabilità affinché facciamo di noi stessi qualcosa di buono, di bello e di autentico.
Questi tratti possiamo chiamarli anche universali antropologici ‘donati’ ad ogni essere umano ovunque egli si trovi a condurre la sua vita. Dove fioriscono? Su un terreno molto concreto, su un tessuto umano che è fecondato da quattro agenti. Dunque quattro premesse di base, quattro evidenze:
- 1. L’uomo non è mai primo. Il fondamentale che ci precede è la donazione! Che fonda la nostra temporalità e storicità: siamo donati a noi stessi come un compito! Un compito promettente… Hannah Arendt dice che ciascuno di noi “inizia qualcosa di unico e di nuovo” ma anche drammatico, non garantito, non assicurato…
2-L’uomo non è mai solo perché siamo costituiti dall’alterità, dico solo due figure:
-leggiamo noi stessi come un altro! Quando parliamo di noi stessi facciamo esperienza di alterità;
-il corpo è un’altra alterità che ci abita. “Io sono un corpo che non governo mai del tutto”.
- L’uomo è sempre altri uomini. È quello che ci sta insegnando l’antropologia culturale odierna ma che ci sta insegnando anche la nostra esperienza quotidiana, e che non vogliamo imparare. Non siamo un bozzolo chiuso. Dagli altri esseri umani che ci hanno preceduto… siamo il frutto di un lungo processo di ominizzazione, per altro ancora in atto… Gli esseri umani che ci hanno preceduto e “creato” sono per noi fonti inestimabili.
- 4. L’uomo è unico e molteplice: ciascuno di noi è “originale”, “unico”, dentro una “molteplicità” inesauribile… cioè: originalità e diversità. Originali perché diversi e diversi perché originali.
Tutto dentro un orizzonte che è quello della finitezza, la quale non è una maledizione… dipende da come la cogliamo e da come la interpretiamo… oggi sicuramente la viviamo come qualcosa da cui fuggire e sbarazzarci continuamente. Oggi è questo forse per noi il nodo di tutte le questioni e i problemi… ma tutta la parabola dell’umano può anche essere letta come una elaborazione e messa in scena del nostro rapporto con la nostra finitezza…
III. Eccoci agli Universali
- Il primo universale antropologico è quello che si diparte dal “nostro essere carente”, incompiuto, ad esempio non nasciamo dotati di un apparato organico ed istintuale già direzionato-attrezzato per… come tutti gli altri animali. Cioè non siamo determinati dal nostro apparato organico-istintuale, il nostro apparato è quindi incompiuto cioè aperto, plastico, da educare, formare, orientare. Per esempio la sessualità ma anche l’intelligenza. Contro ogni determinismo: la dotazione bio-organica ci contraddistingue ma non ci determina, ci condiziona ma non ci inchioda né ci chiude come per gli altri esseri viventi. Allora questa carenza e questa incompiutezza cosa significa? La carenza cosa indica? Anzitutto vuol dire apertura a … un essere incompleto è aperto alla ricerca della compiutezza! Apertura è ricerca-tensione a… verso… Nascere incompiuti costituisce la fortuna di essere aperti e il dramma di metterci la nostra opera.
Questa fortuna, opportunità, promessa e apertura a… si raccoglie in quello che noi chiamiamo desiderio. Sì, il desiderio, dunque: l’uomo è essere di desiderio! Ossia è innervato da una intenzionalità escatologica ed esodica: verso l’Altro e in una costitutiva uscita da sé. Desiderio che non funziona come il bisogno. Il desiderio ci dice che la compiutezza ci attira, ci affascina, ci trascina verso un centro di cui non disponiamo. Il desiderio è apertura infinita: l’infinito che abita nel nostro finito. Generosità che scaturisce da altri e dall’altrove. La dinamica del desiderio è il “non mi basti mai” che i mistici dicono a Dio, ma che anche gli esseri umani si scambiano quando si amano.
- Il secondo universale antropologico è “l’uomo essere simbolico”. La simbolizzazione scaturisce dall’intima insaziabilità del desiderio: senza questa insaziabilità del desiderio non avremmo i simboli, la cultura, il linguaggio. “Se l’uomo potesse essere soddisfatto – prosegue Ricoeur – sarebbe privato di qualcosa di più importante del piacere e che è la contropartita della insoddisfazione, la simbolizzazione. Il desiderio fa parlare in quanto insaziabile domanda. La semantica del desiderio … è solidale con questo rinvio del soddisfacimento”[3]. Il simbolo è il linguaggio del desiderio. Infatti per dire quella méta infinita noi uomini abbiamo creato l’immenso-l’infinito-l’invisibile. L’immaginazione simbolica è per noi vitale, ossia, proviamo a dare un volto a quell’infinito misterioso che ci muove, senza riuscire mai a contornarlo definitivamente.
Il simbolo perché:
-è composto da un segno. Il segno ci vuole ma non possiamo fissarci su di esso;
-è composto da un significato. Il significato/il senso è inesauribile! Perché la méta del desiderio è infinita, inesauribile e possiamo dirla solo simbolicamente con la logica del rinvio. Il simbolo rinvia sempre ad altro…
- Il terzo universale antropologico è il linguaggio: “l’uomo è essere di parola” (E. Bénveniste).
Il simbolo è rinvio, questo rinvio ci spinge a creare linguaggi sempre nuovi, parole sempre nuove… Quindi gli esseri umani sono esseri di parola. Tra uomo e linguaggio c’è un rapporto costitutivo e non solo strumentale. Il linguaggio ci costituisce: è performativo. Le parole ci fanno essere! Dire una parola volgare o dolce non è mai senza effetti sul nostro essere. Ma ecco anche la forza del linguaggio/parola: il parlare ci colloca immediatamente in una condizione di interlocuzione, cioè di dialogo. “Noi siamo dialogo” (H. G. Gadamer). Anche quando siamo con noi stessi e ci parliamo siamo Dialogo. La nostra identità è dialogica! Si costituisce nel dialogo con…
- Il quarto universale antropologico è “l’uomo è essere nel tempo”.
Quando parliamo la prima forma è quella del raccontare. Narrando diamo corpo al nostro essere e al nostro essere insieme. Tramite il raccontare mettiamo a consapevolezza che:
-veniamo da un passato;
-viviamo in un presente;
-tendiamo ad un futuro.
In tal modo assumiamo il nostro essere storia ma costruiamo anche storia, è la nostra storicità.
La storicità è:
-fatta di passato, ossia di memoria/ricordare. I ricordi (bene/male) ci plasmano, siamo dentro una storia collettiva,
– un passato che interagisce con il presente che è il dramma della nostra libertà in atto. Per questo a volte il presente ci fa paura. Il presente è il dramma del discernimento e della scelta…. Che ci apre al futuro.
-apre al futuro, vissuto come promessa anzitutto, come attesa e aspirazione incessante a quella completezza. Ma rimane un futuro aperto! E perciò non è privo di minaccia.
- Il quinto universale antropologico è “l’homo aviator”, ossia l’essere in cammino.
Il passato ci plasma, certo, ma in nome del desiderio che ci abita noi tendiamo al futuro e abbiamo una postura: il camminare… l’uomo è l’essere sempre in cammino… noi veniamo dal cammino di uomini e donne primordiali che si sono messe in cammino dall’Africa, dall’Etiopia, fino ad arrivare nei nostri luoghi. Il nostro corpo è in gran parte bacino-gambe. In questo senso possiamo fare di noi stessi:
- dei nomadi: il nomade non ha una méta;
- dei viandanti: il viandante sta sulla via;
- dei turisti: colleziona e dimentica, esibisce foto ma non si incarna in niente;
- dei pellegrini: è un cammino verso una méta… .
È un fatto che camminare vuol dire essere vivi! Dobbiamo quindi smascherare la profonda ambiguità della metafora delle radici. La nostra identità sta nel camminare… e nel camminare s’incontra sempre qualcuno, a cominciare dall’altro che c’è in noi stessi.
- Il sesto universale antropologico è “l’uomo essere che agisce”, non che ‘fa’ anzitutto, ma che agisce (Aristotele) ossia prassi. Vuol dire anche vivere ed è l’augurio di poter vivere bene. L’agire oltre alla prassi è concretizzato in pratiche, per cui l’uomo non vive ma conduce la sua vita, proprio perché non è determinato come gli animali… deve condurre, guidare, costruire, orientare la sua vita. Quindi le pratiche sono opere mediante le quali diamo forma al nostro essere aperti a…
Le pratiche sono un dare forma:
- la cultura;
- i riti, i rituali;
- le regole di vita;
- il lavoro;
- le arti.
Costitutivo delle pratiche è l’essere in ogni caso pubbliche, comunitarie, ci esteriorizzano e ci mettono sulla scena del mondo e ci immettono in un incontro con gli altri.
- Il settimo universale antropologico è “l’uomo essere eccentrico”.
Il desiderio ci dice che:
-non siamo autocentrati ma decentrati;
-il centro è fuori di noi, è anche per questo che siamo sempre in cammino…
Anche se non vogliamo, siamo eccentrici e scentrati: qual è il nostro centro di gravità permanente?
L’eccentricità:
-è il nostro ex-sistere, siamo fuori, il nostro essere compiuto è sempre fuori di noi, da raggiungere e quindi siamo esposti, siamo esseri possibili;
-dice la legge utopica che ci costituisce. L’utopia cos’è? Serve a camminare e siamo sempre secondo il principio di non appagamento, principio di insoddisfazione, di non sazietà. Arrischiando l’accostamento realistico tra l’essere che cammina e l’essere utopico, dove l’Utopia è esattamente quando rifletteva Eduardo Galeano: l’utopia “è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”. (Eduardo Galeano, Finestra sull’utopia)
L’uomo è un essere escatologico e il pensiero biblico lo ha ben capito e ben espresso, nei modi più ricchi e svariati.
- L’ottavo universale antropologico è “l’homo donator”. Siamo eccentrici cioè fuori di noi e come andiamo fuori di noi? Con la pratica universale e fondamentale del dono. Homo donator, ossia col dono (dare, ricevere, contraccambiare) avvengono tre fatti: a. l’esodo da sé; b. la scoperta-incontro con altri; c. la nascita del legame sociale, del vivere insieme nel riconoscimento e nella reciprocità. E dal dono fiorisce un tratto peculiare dell’uomo: l’apertura a cooperare. Le ricerche antropologiche e neuro-biologiche, ci stanno insegnando che a) ciò che ci fa propriamente “umani”, specie a parte del mondo animale, anche di quello delle grandi scimmie antropomorfe, è la nostra peculiare forma di pensiero dialogico; b) il pensiero umano ha una sua precipua forma scolpita dal processo di adattamento continuato: la forma che serve a farci cooperare tra consimili; c) ergo, l’essenza adattiva umana è la tendenza alla cooperazione. “Gli esseri umani non solo comprendono gli altri come agenti intenzionali, ma si uniscono a loro anche nelle più diverse forme di intenzionalità condivisa, dalla soluzione collaborativa di problemi alla creazione di complesse istituzioni culturali”. In altre parole, l’uomo nel corso del suo processo di umanizzazione ha appreso fino ad incorporare in sé stesso, che è bene scegliere sempre soluzioni collaborative piuttosto che individualistiche. Per questo è evidente, come scrive Marshall Sahlins, che noi non siamo “condannati da una irresistibile natura umana a guardare al nostro tornaconto indipendentemente da chi abbiamo di fronte, mettendo così a rischio la stessa socialità”[4].
- Il nono universale antropologico è “l’homo ludens”, l’uomo che gioca!
Il gioco è il modo con cui noi vorremmo vivere insieme, grazie alla pratica del dono. Il gioco è un tratto costitutivo del nostro essere. Esso è uno speciale tipo di esistenziale accanto al lavoro, al potere, all’amore e alla morte: “L’uomo è essenzialmente un mortale, un lavoratore, un lottatore, un amante – e un giocatore. Morte, lavoro, dominio, amore e gioco formano l’ambito tensionale elementare e la base dell’enigmatica e multivoca esistenza umana”[5]. Il fanciullo che gioca è vicino al Dio che crea il cosmo giocando. E’ lunga la tradizione sapienziale, mitologica e religiosa, che assume il gioco come una delle grandi metafore per rappresentare l’atto creatore di Dio. La stessa Bibbia non si trattiene dal raffigurare la Sapienza divina creatrice come una fanciulla che danzava divertendosi nell’orizzonte di quel mondo che stava fiorendo dalle sue mani (Proverbi 8,30-31). Il cosmo dunque come espressione del “gioco di Dio” e nella mistica cristiana del gioco divino si vuole significare che “la creazione e l’incarnazione sono opere dell’amore di Dio, logico ma libero da qualsiasi costrizione”[6].
La radice linguistica che significa giocare, essere contento, scherzare;
-indica un intrattenimento allegro: stare insieme senza occupazioni, convivere semplicemente. È legato alla festa;
-creare e ri-creare, cioè costruire un altro mondo all’insegna della convivenza nella festa e nella cooperazione;
-fare le cose per niente: gratuità assoluta! Vivere per gioco vuol dire vivere senza l’oppressione della prestazione, dell’efficienza e dell’efficacia.
Possiamo quindi spingerci ad affermare che l’idea neoliberista che il movente essenziale dell’essere umano sia solo quello di massimizzare piaceri, comfort e proprietà, in una parola utilità, è ideologia pura, contraddetta dai fatti. L’homo non è solo oeconomicus e le relazioni tra individui non sono solo mercantili: c’è dell’altro che conta di più e questo altro lo cerchiamo anche nel gioco e in altre pratiche libere e gratuite[7].
- Il decimo universale antropologico è “l’uomo è l’essere che fa credito”, appunto perché siamo incompiuti, dobbiamo dare credito a… L’uomo si fida e si affida. È l’universale antropologico della fede-fiducia. L’uomo è un essere che ci crede, che fa credito e si accredita, che presta fede, si affida, e confida. La fiducia è la struttura invisibile che tiene in piedi tutto. E lo comprendiamo bene nella nostra vita di ogni giorno. Per questo romperla, lacerarla significa mettere in rovina quello che siamo e soprattutto quello che siamo insieme. Ed è questo il contesto proprio della verità, di quello che noi chiamiamo verità:
-ciò che noi scopriamo sempre di nuovo con tutto noi stessi (greco aletheia, in filosofia);
-ciò su cui ci appoggiamo e ci affidiamo (cultura, religione, fede, amante).
Questi due aspetti non sono in opposizione ma si completano e si liberano a vicenda! Michel De Certeau quando osserva che “il credere si presenta come un intreccio di operazioni, una combinazione di doni e di debiti, una rete di “riconoscimenti”. È per prima cosa una “tela di ragno”, che organizza un tessuto sociale”[8]. La religione si colloca al cuore della “cultura”, ed è il cuore in cui si gioca la partita del senso della “realtà ultima”. Ciò significa che l’articolazione della religione ci mette di nuovo di fronte al concetto di significato, il “concetto dominante del nostro tempo” (S. Langer). Di più: quel concetto che rinvia al darsi esistenziale, al vissuto nel quale siamo già da sempre coinvolti, e che è un altro modo per indicare quell’apertura esistenziale e quell’eccedenza che non riusciamo mai a circoscrivere.
Conclusioni
- L’uomo è un progetto aperto.
Questa apertura fonda nello stesso tempo la nostra libertà e la nostra responsabilità drammatica. Apertura che contiene il nostro essere come il filo d’erba che al mattino germoglia e alla sera è già seccato (salmi…). E il nostro essere “di poco inferiore a un dio” (sal.8) e nello stesso tempo “un’ombra alla sera”.
- L’asse centrale è il desiderio
È il vero motore: quello che ci getta al di fuori e oltre noi stessi. Oggi è anche quello più fagocitato e manipolato, per questo il primo impegno è quello di smascherare i nemici del desiderio, che sono il tutto e subito e la gratificazione ad ogni costo. Il desiderio è l’infinito nel finito: “ha un’altra intenzione – desidera ciò che sta al di là di tutto quello che può semplicemente completarlo. È come la bontà – il Desiderato non lo compie, ma lo scava”[9]. Questa terza dimensione del desiderio, che ci permette di superarne proficuamente il livello psicoanalitico altrimenti esposto a riduzionismi incapaci di darne ragione quanto a ricchezza e drammaticità, può essere significata parlando di dimensione escatologica del desiderio[10].
Nello stesso tempo dobbiamo inventare una nuova pedagogia non più centrata sui bisogni ma sul desiderare. Educare a desiderare mettendo in valore: l’educazione all’attesa, insegnare a saper aspettare per coltivare l’umano che ha bisogno dei suoi tempi; la spogliazione di sé a favore del centro fuori di noi.
- Epoca di ricostruzione dell’umano.
Di fronte ad un certo accanimento sull’uomo, che tracima dai fatti odierni, la nostra è l’epoca in cui abbiamo la responsabilità di ricostruire l’umano. Il Dio fatto uomo ci insegna che l’umano gli sta a cuore! Anche a noi deve stare a cuore… Ogni Universale perciò costituisce un compito educativo, sono tutti processi di umanizzazione che siamo chiamati ad avviare, a partire dalle nostre faccende quotidiane. E’ anzitutto una questione di stile di vita (che in questi giorni capiamo quanto sia importante!) e di forma di vita dell’intera comunità sociale.
Infine, per continuare la riflessione
Questi testi del grande pensatore Blaise Pascal possono essere d’aiuto per cogliere le giuste proporzioni e sproporzioni dell’essere umano. Testi – presi dai suoi Pensieri – che ci danno la vertigine e che ci mettono di fronte a questioni che non siamo soliti frequentare. Svolgono il ruolo di una ‘terapia d’urto’…
“Come non so donde vengo, così non so neppure dove vado; e so soltanto che, uscendo da questo mondo, piombo per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio irritato, senza sapere quale di queste due condizioni mi toccherà in eterno. […]” Chi vorrebbe avere per amico uno che parlasse a questo modo? […] A dire il vero, è un onore per la religione avere come nemici uomini così irragionevoli; e la loro opposizione è così poco pericolosa che essa se ne serve addirittura per confermare le sue verità. (n. 194, 1994)
Niente rivela maggiormente un’estrema debolezza di mente quanto il non conoscere che cosa sia l’infelicità di un uomo senza Dio; niente denota maggiormente una cattiva disposizione del cuore quanto il non desiderare la verità delle promesse eterne; niente è così stupido quanto il fare il gradasso con Dio. (n. 194, 1944)
Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo pò di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un’ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare. (n. 194, 1994)
Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano, mi spavento, e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c’è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora. (n. 205, 1994)
Che cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla; un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall’abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinito dal quale è inghiottito. (n. 43, 1994)
[1] J.-B- METZ, La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978, p. 68.
[2] Ivi, p. 69.
[3] Ivi, pp. 357-358.
[4] M. SAHLINS, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Eèuthera, Milano 2010, p. 127. Un brillante e ricco saggio che attacca duramente non solo l’idea di una natura umana determinata biologicamente, ma la stessa idea occidentale di natura umana (per capirci, quella che continua a plasmarci…) come natura avida, litigiosa, violenta da homo homini lupus, così “bestialmente” egoista da dover essere “contenuta” entro strutture in fondo totalitarie e disuguali. Scrive Sahlins: “La natura dell’homo sapiens è la sua cultura, anzi le sue culture. E la stessa idea che siamo schiavi delle nostre inclinazioni animali non è altro che una creazione socio-storica, cioè culturale. Un’idea che è un grosso sbaglio, e non dimentichiamoci che questa perversa concezione di natura umana sta mettendo a repentaglio la nostra stessa esistenza”; ibidem.
[5] E. FINK, Oasi del gioco, Cortina, Milano 2008, pp. 14-16, e a p. 12. Fink sottolinea che “il gioco non è una apparizione marginale nel corso della vita dell’uomo, non è un fenomeno che appare occasionalmente, non è contingente. Il gioco appartiene essenzialmente alla costituzione d’essere dell’esistenza umana, è un fenomeno esistenziale fondamentale”.
[6] H. RAHNER, L’homo ludens, Paideia, Brescia 1969, p. 27.
[7] Ma sbaglieremmo ad avvicinarci al gioco soltanto come ad un “fenomeno marginale rispetto alla serietà, alla realtà, al lavoro”; sbaglieremmo a porlo “accanto ad altri fenomeni della vita” e a leggerlo secondo la logica dell’antitesi “lavoro e gioco”, “gioco e serietà della vita”, e così via, perché in tal modo “il gioco rimane l’ombra di un supposto controfenomeno, e così viene nascosto e frainteso”.
[8] M. DE CERTEAU, La pratica del credere, Medusa, Milano 2007, p. 31.
[9] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1982, p. 4 e p. 32. Vale la pena di seguire tutta l’argomentazione di Lévinas: “L’infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce come Desiderio. Non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto. Desiderio perfettamente disinteressato – bontà”; ivi, p. 21.
[10] Come esplicita, nella sua articolata e acuta introduzione, A. BARBAN, Dal “desiderio di Dio” al “desiderio e Dio”, in R. KEARNEY-G. LAFONT, Il desiderio e Dio, San Paolo, Milano 1997, p. 9.