L’EVENTO DELLA CROCE E LE SUE IMPLICAZIONI
PER LE CHIESE – 1 Cor 1,10-4,21
Premessa – un mosaico di situazioni
Le Lettere paoline non sono un trattato sistematico riguardo ai contenuti della vita cristiana, ma piuttosto una teologia applicata per rispondere ai problemi concreti sorti nelle chiese, in questo caso a Corinto.
Le problematiche di quelle chiese possono essere specchio del nostro oggi; meditando la Lettera noi operiamo una specie di distanziamento rispetto alla loro situazione, con lo scopo di illuminare il nostro oggi ecclesiale e culturale.
La città portuale conosciuta da Paolo era multirazziale e multireligiosa; una metropoli che sfiorava ottocentomila abitanti, provenienti da Roma, dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto, oltre agli indigeni. In questo ambiente complesso, le piccole assemblee si raccoglievano presso persone significative (Paolo le cita nelle Lettere). La chiesa di Corinto non è centralizzata; in essa affiorano problemi di convivenza tra indigeni e stranieri, tra ebrei e pagani, tra persone facoltose e schiavi e lavoratori portuali di scarsa formazione etica e culturale. Per tutti costoro, abbracciare la vita di Gesù significava stare sul confine: integrati in un sistema economico statale, e dover scegliere di essere discepoli di uno che mostrò con la vita e la parola che c’è un’altra “Via” del vivere umano: essere vicini a tutti e nello stesso tempo non venire omologati all’ambiente. Il Libro degli Atti definisce i cristiani: “quelli della Via” (cap 9,2)
La Lettera ci offre un mosaico di temi che descrivono la situazione reale della comunità. Sono problematiche incandescenti che agitano la convivenza delle chiese domestiche. Paolo è reduce da una serie di vicende poco gloriose in terra di Acaia e ha il coraggio di annunciare il “Vangelo” a Corinto; non un libro, ma la storia di Gesù, il suo stile di vita povero, marginale e tuttavia ricco di umanità. “Dio lo impregnò della forza del suo amore – lo Spirito – ed egli passò beneficando e risanando quanti erano schiacciati dal male” (Atti 10,38).
Le scelte di Gesù non furono gradite ai custodi del “si è sempre fatto così”. Lo rifiutarono e lo uccisero. Dio rispose facendolo risorgere e donandolo all’umanità come potenza che salva e sapienza divina.
Le scuole filosofiche in terra di Acaia
Paolo, reduce dalla prigionia subita a Filippo e dai contrasti con la sinagoga di Tessalonica, fugge ad Atene, dove viene umiliato; poi si stabilisce a Corinto. In questa città annuncia il Vangelo. A Corinto, come in altre città della Grecia, fiorivano scuole filosofiche di un sano equilibrio: pitagorici, stoici, platonici etc..
Il clima spirituale degenera e ben presto sorgono vere e proprie scuole del “piacere”, al fine di assaporare ogni possibile godimento, compreso quello più volgare. “Il piacere concreto è da preferirsi all’insegnamento astratto della felicità”. Famosa è la scuola di Epicuro.
La strategia di Paolo in questi ambienti è interessante; egli non propone un trattato contro la mentalità edonistica diffusa, ma annuncia semplicemente il Vangelo, l’Evento buono accaduto in Gesù – Messia: “Cristo potenza e sapienza di Dio” (1Cor 1,24). Un progetto di vita nascosto: “ciò che non si è mai visto, mai raccontato e udito, mai formulato come programma da una coscienza umana, Dio lo rivela e lo dona, mediante lo Spirito, come agire sapiente a coloro che si aprono alla sua relazione” (1Cor 2,18 – Is 64,4).
I punti essenziali dell’annuncio paolino
1Cor 1,30-31: La Sapienza della Croce: l’opera di Dio realizzata in Cristo Gesù
2,16: Leggere la realtà con la capacità interpretativa di Cristo
3,21-23: La Sapienza della Croce e gli artigiani del Vangelo che lavorano nelle chiese
4,8: al “di già” di chi si sente già arrivato, di fatto è un “gonfiato”.
Paolo lancia l’avvertimento: attenzione all’enfiagione, perché è la piaga demagogica e mediatica gestita da alcuni (1Cor 4,18), mentre il Regno di Dio non consiste in chiacchere, ma nella forza stessa che si sprigiona dall’Evento pasquale di Gesù (1,19-20).
La dura esperienza del missionario suggerisce all’apostolo il coraggio di scegliere un linguaggio privo di tecniche “ruba cervello”. Egli racconta semplicemente la vicenda di Gesù, conclusasi sulla croce; convinto per esperienza che Dio, da quell’evento, dispiega la sua forza amorosa, espressa nella dedizione luminosa di Gesù e nella sapienza del suo insegnamento, per aiutare l’uomo segnato dalla finitudine.
“Dio non raggiunge la sua soddisfazione quando punisce, ma quando riporta il figlio nella casa, quando il suo abbraccio arriva anche a Caino e non solo al giusto Abele. Questo modo di pensare non appartiene però all’uomo, ma solo a Dio. Solo l’identità di Dio è contrassegnata dalla misericordia, non quella dell’uomo. […] La misericordia è anzitutto una scelta di Dio: la scelta di essere in relazione con l’uomo e che si traduce in decisione libera e irrevocabile di essere dalla parte dell’uomo, con amore viscerale materno (rahamin) e con fedeltà benevolente”.
Queste parole di M. Grilli definiscono bene “la sapienza e la forza dell’evento della croce” annunciata da Paolo.
La sapienza della croce: l’opera di Dio realizzata in Cristo Gesù (1Cor 1,18-31)
L’apostolo distingue “l’essere in Cristo” (avvolti dal suo evento globale) dagli schieramenti religiosi di certe correnti.
La centralità per la trasformazione del singolo, della comunità e dell’intera umanità è data da: “Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (1,24-25). Gesù Crocifisso e Risorto diventa il criterio per interpretare le contraddizioni umane, gli schieramenti che dividono le comunità – “io sono di Apollo, io sono di Paolo” – le immoralità, le ingiustizie per mancanza di solidarietà, le tensioni tra credenti principianti e credenti maturi. Il Vangelo stimola l’accoglienza armoniosa delle differenze (cf Evangelii Gaudium nn 226-233).
L’evento della Croce che Paolo annuncia resta follia per l’uomo, scandalo per chi crede nei miracoli. La logica di Dio sorprende ogni valutazione umana, essendo altro rispetto al nostro pensare. Dio salva attraverso il Crocifisso; una scelta ravvisabile in coloro che Egli chiama a formare la comunità di Gesù (1,26ss); persone che non avrebbero futuro, così che nessuno possa vantarsi (1,31).
A conclusione del primo movimento espositivo, in risposta alle segnalazioni delle divisioni, Paolo formula una sintesi magistrale sulla “Sapienza della croce”: Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore (1,30-31).
Dio stesso, in Gesù, ci ha messi a contatto diretto col suo agire. Per quanto non sia semplice decifrare l’azione, il dinamismo che si sprigiona dal nostro “essere in Cristo” ci libera in continuità da tutti gli elementi schiavizzanti. Le metafore bibliche della redenzione (liberazione-riscatto) dall’Egitto, dal male, dalla morte rappresentano l’ultima parola di Dio sul destino di ogni persona.
La redenzione, afferma Paolo, è un processo tuttora in corso. Quando giungerà a compimento la pienezza dei tempi in noi, allora saremo irreversibilmente separati dal negativo, dalla finitudine e appariranno in noi i valori caratteristici di Dio. Egli infatti ci rende santi come Lui è Santo (cf Lv 19,2 e Mt 6: “Santifica il tuo Nome in noi”. L’espressione biblica: Dio ci santifica in Cristo – significa che Dio ci rende capaci di esprimere l’agire stesso di Gesù, di assomigliargli nell’amore, di perdonarci e trasformarci nelle relazioni. Un miracolo che appartiene esclusivamente a Dio solo e al suo Figlio Gesù (cf Os 11,9: “Io ti perdono perché sono Dio, non un uomo, il Santo in mezzo a te”), ma che attraverso l’opera di Gesù ci viene donato come rivelazione del suo agire sapienziale. Si va ricreando così l’umanesimo nuovo luminoso frutto della Pasqua. Un evento che oggi chiede, come allora, mani umane che traducono l’agire relazionale di Gesù. Dio appare uno sconfitto nel suo Figlio crocifisso, ma ecco il paradosso insondabile: quell’evento nasconde una riserva di potenziale che nemmeno la morte potrà arrestare (1,18).
Ed ecco il terzo atto della sintesi paolina: “Dio ci ha donato il suo Figlio come giustificazione”. Una parola pregnante pronunciata da Paolo nel contesto della croce. Per noi, oggi, vuole dirci che, prima delle opinioni religiose, degli schieramenti e delle nostre sensibilità, dobbiamo dare il primato all’azione di Dio che si relaziona con noi. Egli è orientamento, cura, guarigione, salvezza definitiva. E’ costante su questi aspetti il richiamo di papa Francesco in Evangelii Gaudium.
La relazione amante di Dio non è motivata dalle nostre opere, ma dalla sua paternità-maternità, perché Dio non è disposto a perderci, e pur rispettando la nostra libertà, troverà le strade per portarci nel circuito della sua relazione attiva.
La giustificazione non è un trattato filosofico, non è una teoria, ma è l’azione stessa di Dio, constatata nell’ebraismo e nel cristianesimo. Si tratta della lettura di un popolo, della rivelazione fondata su azioni e soprattutto sull’agire pasquale di Dio,
nell’evento Gesù, i cui sviluppi sono misteriosi, imprevedibili. Paolo conferma che la relazione di Dio con l’uomo non è mai interrotta (dalla creazione al suo compimento), perché essa è suggellata dalla promessa e dall’attuazione avvenuta nella croce di Gesù: il legame di alleanza eterna (cf Lc 22,20; 1Cor 11,25).
Per Paolo la croce è sigillo di perdono, è grazia di colui che ci ama e si dona (Gal 2,19-20); è immersione nella Pasqua giustificante (Rom 6,1-11); è compimento della relazione di Dio con l’uomo, sempre sognato e finalmente attuato in Gesù. L’evento svela l’amore paradossale, commenterà Paolo in 2Cor 5,14-21, “perchè in Lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5,21).
Dio ha permesso che trattassero il suo Figlio benedetto come un peccatore maledetto, perché noi potessimo diventare il suo sogno. Ora questo amore attivo ci avvolge, ci permette di sperimentare in Cristo l’azione ricreatrice, quella che fa passare le cose vecchie e fa sorgere l’umanità ad immagine dei valori divini (2Cor 5,17). Si ha allora il prodigio della nuova creazione.
Con l’azione giustificante, Dio realizza il sogno di avere accanto un’umanità affine a Lui. Sono venuto a cercare e salvare ciò che era perduto, dirà Gesù (Lc 19,10).
Leggere la realtà con la capacità interpretativa di Cristo – 1Cor 2,6-14
Paolo si rende conto di essere stato afferrato da Cristo e di essere sollecitato a sua volta di afferrarlo, per essere con Cristo e come Cristo (Fil 1,23), spinto dall’esigenza di contraccambiare nella speranza di raggiungerlo (Fil 3,10).
E proprio in questo movimento di appartenenza affine, che Paolo enuncia il quarto valore: la “sapienza” che permette di vivere le scelte tipiche di Cristo, il suo stile di vita, far propria la sua sensibilità progettuale, scriverà in Fil 2,5.
La riflessione teologica di Paolo annuncia una spiritualità matura (2,6). A. Pitta scrive che essere in Cristo è come essere immersi in un cratere di un vulcano attivo e sperimentare la sua forza esplosiva. Un movimento originario, divino, che dalla liberazione ci fa approdare alla sapienza di Cristo. Colui che prese le distanze dalla richiesta di miracoli e dalle nostre logiche puramente naturali, ora ci partecipa la sua capacità di leggere la realtà e di orientarci per riscrivere il suo stile di vita (2,16).
Dio salva per mezzo della Pasqua di Gesù e ci fa essere in Cristo per la più paradossale delle sue vie: l’Evangelo. “L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.
Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (la capacità interpretativa) (1Cor 2,15-16).
La comunità rende così leggibile il volto operativo di Cristo mediante lo Spirito (2Cor 3,1-3).
La sapienza della croce e gli artigiani del Vangelo che lavorano nelle chiese – 1Cor 3,1-23)
La terza grande sintesi costituisce il punto vertice (in particolare 3,21-23).
3,1-4 Paolo inizia l’argomentazione con un pugno sullo stomaco ai Corinti: egli li taccia da immaturi e principianti, incapaci di capire i discorsi e le realtà profonde del Vangelo; dunque, bando ad ogni loro vanità.
In 3,5-23 Paolo affronta ora il nodo spinoso dell’identità dell’apostolo e del suo vero ruolo nella comunità. L’apostolo non può essere parificato semplicemente ad un leader di gruppo, a un santone. Chi è allora? Un diacono, un servitore attraverso cui si arriva alla fede; ma attenzione: secondo poteri che Dio stabilisce. Il ruolo del servitore è dunque demitizzato rispetto a Dio (2,5), anzi egli deve stare attento a come svolge il suo servizio. Il servo ha poteri limitati.
3,6-9 Dall’identità dei servi Paolo ora passa a descrivere chi è la comunità. Egli la definisce: campo, piantagione di Dio (v. 9). E il lavoro dei servi – apostoli è un lavoro agricolo (vv. 6-9).
Di questi servi e apostoli, alcuni, come Paolo, entrano nella prima fase del programma: essi dovranno allora dissodare e piantare (vv. 6.7.8); altri, come Apollo, rappresentano una seconda stagione di lavoro e dovranno semplicemente irrigare il seme gettato da altri (6.7.8). Colui che possiede la vita ed è in grado di donarla e farla crescere non sono gli operai, ma Dio stesso (6.7.9).
E Dio è il proprietario del campo, oltre che della vita. Chi sono questi operai? Persone che offrono le proprie risorse a Dio (sunergoi); anzi, dei salariati chiamati a ore (cf. Mt. 20,1-15). Essi riceveranno semplicemente il salario della loro fatica (v. 8). Da notare che il lavoro è chiamato proprio col termine fatica (“copos”).
Una seconda immagine descrive la chiesa: edificio – 3,9-17
Sia l’immagine del campo che quella dell’edificio provengono dalla Bibbia:
cf. Amos 5,11; Is. 5,2ss; Is. 65,21; Dt. 6,10-11.
Piantare ed edificare sono le opere di Dio per un popolo nomade, che vive nella provvisorietà e senza costruzioni solide. Paolo, usando queste immagini, presenta una realtà di chiesa peregrinante piuttosto che sedentaria e autosufficiente.
Paolo è stato il pioniere che ha dissodato il terreno e ha posto la prima pietra angolare: Cristo. – 3,12-15. Il tempo e le prove dimostreranno che cosa l’apostolo ha costruito e con quali materiali. Se quelli usati sono scadenti verranno bruciati; se sono validi, si consolideranno e brilleranno.
I vv. 16-17: sembrano un inciso sferzante contro la superficialità dei Corinti.
Di fronte a tanto lavoro, e a come Dio si rende presente nella comunità, Paolo mette in guardia i Corinti a non lottare contro Dio perché verrebbero semplicemente annientati.
In questa sezione – 3,5-17 si nota il richiamo trinitario: Dio è il proprietario, Cristo la pietra angolare, lo Spirito la realtà che impregna, trasforma e rende santi (3,17).
Una perorazione chiude:
vv. 18-22 Paolo invita i Corinti ad abbracciare la Sapienza vera e a non lasciarsi condizionare da modi di pensare mondani. L’appassionata esortazione e perorazione subisce un’improvvisa impennata e diviene un canto di libertà e sovranità responsabile.
E la comunità chi è? Essa è un valore grande.
vv. 22-23 Tutto è funzionale ad essa: gli apostoli, i servitori, il mondo, la vita e la morte. Tutto gioca ad edificarla, il presente e il futuro. Tutto! Questa centralità della comunità è poi relazionata a Cristo in termini di consegna offertoriale: il vero Signore della comunità è Cristo. E Cristo è relazionato al Padre. Ne consegue il primato di Dio, il quale ci dona Cristo come mediazione e signore della comunità per una relazione di primato su tutto il resto.
Paolo rovescia così i partiti, i santoni, i leaders. I Corinti dicevano: io sono di Apollo… Paolo ora dice: Apollo è vostro, voi di Cristo, Cristo di Dio!. Vengono così ristabilite le giuste relazioni secondo la Sapienza della Croce. In 2Cor. 1,24 Paolo dirà “noi non vogliamo fare da padroni della vostra fede”.
L’ultima applicazione della Sapienza della Croce
4,1-13 riguarda il servizio che svolge l’apostolo. Nella sezione 3,5-15 egli aveva parlato del suo ruolo e lo aveva definito ruolo di servitore (3,5). (Non come traduce la Cei – “ministro”). Paolo ora approfondisce l’identità di colui che è di aiuto a Cristo nella comunità e chiede di considerarlo “aiutante” (uperetes). Eretes significa rematore, ipo significa sotto: dunque si tratta di un rematore che riceve ordini, che è a disposizione di un altro, in questo caso Cristo (4,1).
Il problema dell’aiutante è quello di stare al ritmo, cioè di essere fedele. Chi lo giudicherà non sarà semplicemente il consenso umano, e nemmeno la coscienza personale, ma il Padrone. V. 4 – Mio giudice è il Signore. E’ lui che mette in luce i segreti profondi, le intenzioni nascoste di chi collabora con lui (v. 5).
Attenzione dunque al vanto e all’enfiagione (vv. 7-8), perché tutto è dono (v. 7).
Volgendosi al termine della riflessione:
vv. 9-13 Paolo ora entra nel vivo del suo servizio e della sua vocazione. Egli parla dei tratti del suo lavoro che assomigliano molto alla vicenda di Geremia (1,5; cf. Gal. 1,15).
Parla delle fatiche, non degli onori; delle sofferenze, opposizioni, rifiuti, persecuzioni, insulti.
La vocazione dell’apostolo spesso è in costante opposizione alla comunità, egli ne porta i pesi (fame, sete, nudità: termine che significa “privo di dignità”, disprezzo, condanna, spettacolo per il mondo (v. 9), debolezza, stoltezza (v. 10).
Paolo ha vissuto (vv. 11-12) ogni genere di precarietà e contraddizione e ha dovuto rispondere costantemente al male ricevuto con il bene. Egli non restituisce il male vendicandosi.
Una simile vocazione non si capirebbe senza entrare nel mistero di Cristo. Per l’apostolo la vera gloria e il vero vanto non è il successo, l’efficienza, ma l’imitare Cristo crocifisso vivendo i valori più impegnativi del discorso della Montagna.
Un elenco delle prove:
4,9 Dio mette l’aiutante di Cristo all’ultimo posto come un condannato a morte;
4,10 In rapporto alla comunità questi è un perdente, debole e disprezzato;
11-12 Egli vive faticosamente ogni sorta di privazione fino a quella di essere derubato della dignità e molte volte è dileggiato.
12b-13 L’aiutante di Cristo deve restituire il male ricevuto continuando a fare il bene ai suoi aggressori;
13 l’apostolo sembra proprio la spazzatura, il rifiuto sociale, marginalità da disprezzare, il senza diritti.
Essere apostolo è un onere, un peso, non un onore sociale. Il modello di questo comportamento rimane Gesù e costituisce il suo insegnamento più radicale (cf. Mt. 5,44 e Lc. 6,27-28: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi perseguitano, che vi odiano, che vi calunniano).
Vivere una simile vita diviene a tutti gli effetti un atto di offerta incessante, una liturgia molto costosa. In Fil. 2,17 Paolo dirà: “anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo”. E in Rom. 12,1-2 esorta a fare del proprio vissuto un’offerta.
L’apostolo dunque ripropone con la propria esistenza i paradossi vissuti da Gesù: una dedizione offerta in cambio dell’umiliazione più ignobile. Gesù restò fedele per aiutare l’uomo e salvarlo. Questo agire può ripugnare alla ragione umana. Tanta dedizione può apparire follia, eppure resta lo splendore di un amore che è divino. Ecco il “Cristo Sapienza per noi (1,30) e potenza per noi”.
Note conclusive
Corinto è una città portuale multirazziale e multireligiosa. Le grandi scuole filosofiche subiscono un degrado e si trasformano in centri di piacere. In questo ambiente cosmopolita, Paolo annuncia la Sapienza della Croce e propone un umanesimo alternativo, fondato sulla relazione a Cristo, per imparare la più sconvolgente via dell’amore.
Umanesimo non fondato sulle nostre risorse, ma sull’iniziativa gratuita che stimola la nostra risposta e la abilita per vincere le forze del degrado culturale. Una liberazione che avvia l’affinità ai valori di Cristo, grazie all’opera di Dio, capace di incidere nel nostro stile di vita e avviarlo all’interpretazione della realtà con la modalità stessa di Gesù. Sono i due grandi nuclei sintetici proposti da Paolo con il dinamismo stesso di Dio (cf 1Cor 1,30-31 e 2,16).
Vertice e punto d’arrivo di questo lavoro di Dio, in Cristo, sarà la vita di persone che investono le loro risorse non solo per se stesse. In questo legame esse desiderano diventare artigiani del Vangelo nella storia (il campo), per costruire un edificio di umanità relazionata, legata al dinamismo di Cristo, e attraverso di Lui a Dio stesso. Si intuisce così l’ambizioso progetto di Dio sull’umanità. E’ un progetto di umanità di valore, relazionata, che sconfigge le divisioni, le classi, e si riconosce nella solidarietà matura, che rispetta le diversità, promovendo tutto e tutti.
(Firmino Bianchin)
Segnalo: questo articolo di Pierangelo Sequeri e il messaggio del nostro Vescovo Michele Tomasi sul sito diocesitv.it