Lo sguardo profetico dei cristiani

Terza Lectio di Avvento 2016 – Firmino Bianchin

Lavoro, povertà, solidarietà, Eucarestia, Liturgia delle Ore, condivisione dei valori

(Cf. B. Calati, Il primato dell’amore, pp 15-25)

  1. B. Calati porta l’attenzione sulla luce delle Scritture Sante, sulla grande tradizione patristica e sul dialogo col mondo, sulla necessità della riscoperta della verginità e del matrimonio come volti dell’amore. Valori resi vivi dalla lectio, dall’aggiornamento teologico, per non finire nelle derive ambigue della mondanità liberista e parossistica del facile erotismo, incentivato anche dall’eccessivo puritanesimo legalista, che ha imperversato nell’educazione cristiana. Calati definisce questa tradizione fatta di discipline più che di educazione globale della persona come un “retaggio arcigno e maledetto”. Quello che è mancato e manca è la formazione sapienziale permanente, alla luce della rivelazione, della quale il priore sottolineava prima di tutto l’importanza dello Spirito Santo, nella dimensione dialogica relazionale trinitaria e di riflesso in quella antropologica (Vedi il Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qoelet, Ester e il NT, in particolare la tradizione giovannea.

Povertà e lavoro insieme alla preghiera e alla comunione, costituiscono le coordinate fondamentali dell’identità cristiana e monastica. Anche questi valori ci giungono da tradizioni spirituali ambigue e riduttive, che hanno privato il cristianesimo dell’afflato profetico. I Padri antichi erano aderenti al progetto divino dell’incarnazione: il Verbo si fece carne e si manifestò per trent’anni come il figlio del falegname. Nella Scrittura non ci sono modelli intimistici come quelli favoriti dal pietismo religioso della devotio moderna.

La povertà non si risolve in miseria, in sottosviluppo e degrado. La povertà biblica è sobrietà, solidarietà, liberazione da accentramenti di capitali che generano ingiustizia, è garanzia da affanni e alienazione di un lavoro schiavizzante. Il lavoro come è proposto dalla Bibbia ci pone in tensione verso la pienezza, perché associa l’uomo all’operosità divina che sa creare e donare. Dio ci vuole suoi collaboratori; affida all’uomo il compito del lavoro perché diventi artefice di progresso, di promozione sociale. La povertà ha molte sfaccettature, e può degenerare in miseria, in privazione di diritti, in degrado e sottosviluppo (cf Laudato si, nn 43-54) e colpisce in modo speciale i più deboli, ma questo è frutto dell’uomo peccatore.

  1. a) La santificazione dell’impegno umano- T. De Chardin (L’ambiente divino, ed. Queriniana, 2003)

Non penso di esagerare affermando che, per i nove decimi dei cristiani praticanti, il lavoro umano resta allo stato di «impaccio spirituale». Nonostante la pratica della retta intenzione e della giornata quotidianamente offerta a Dio, la massa dei fedeli cova oscuramente l’idea che il tempo trascorso in ufficio, nel proprio studio, nei campi o nella fabbrica sia sottratto all’adorazione. Certo, è impossibile non lavorare. Ma è anche impossibile proporsi quella profonda vita religiosa riservata a coloro che hanno il tempo di pregare o predicare tutto il giorno. Nella vita, alcuni minuti possono essere recuperati per Dio. Ma le ore migliori sono sperperate o per lo meno svalorizzate dalle cure materiali. – Oppressi da questo sentimento, moltissimi cattolici conducono in realtà una doppia vita, o una vita impacciata: hanno bisogno di abbandonare la veste umana per ritenersi cristiani, e solo cristiani di secondo ordine.

Dopo quanto abbiamo detto delle divine estensioni e delle divine esigenze del Cristo mistico od universale, appaiono manifeste l’inanità di quelle impressioni e la legittimità della tesi, così cara al Cristianesimo, della santificazione del dovere del proprio stato. Certo, nelle nostre giornate, esistono minuti particolarmente nobili e preziosi, quelli della preghiera e dei sacramenti. In mancanza di quei momenti di contatto, più efficaci o più espliciti, il fluire dell’onnipresenza divina e la visione che ne abbiamo ben presto s’indebolirebbero, sino a che la nostra più fervida diligenza umana, senza essere del tutto perduta per il Mondo, resta per noi privata di Dio. Ma, riservata gelosamente questa parte alle relazioni con Dio incontrato, se oso dire, «allo stato puro» (cioè allo stato di Essere distinto da tutti gli elementi di questo Mondo), come temere che l’occupazione più banale, più assorbente oppure più affascinante, ci costringa ad uscire da Lui? – Ripetiamolo: in virtù della Creazione e ancor più dell’Incarnazione, niente è profano quaggiù per chi sa vedere. Invece, tutto è sacro per chi sa distinguere, in ogni creatura, la particella di essere eletto sottoposta all’attrazione del Cristo in corso di compimento. Con l’aiuto di Dio, riconoscete la correlazione, anche fisica, che collega il vostro lavoro all’edificazione del Regno Celeste, vedete lo stesso Cielo che vi sorride e vi attrae attraverso le vostre opere; e, nel lasciar la Chiesa per la città rumorosa, non avrete altro che la sensazione di continuare ad immergervi in Dio. Se il lavoro vi sembra insipido od estenuante, cercate rifugio nell’interesse riposante e inesauribile di progredire nella vita divina. Se vi appassiona, trasferite nell’anelito di Dio, da voi meglio conosciuto e desiderato sotto il velo delle opere, lo slancio spirituale che la Materia vi comunica. Mai, in nessun caso, «sia che mangiate o che beviate», acconsentite a fare checchessia senza averne riconosciuto prima e senza averne ricercato poi tutto il significato ed il valore positivo in Christo Jesu. Questa non è soltanto una lezione di salvezza qualunque; è, secondo lo stato e la vocazione di ognuno, la stessa via della santità. Infatti, per una creatura, cosa significa essere santa, se non aderire a Dio al massimo delle proprie possibilità? – e che cosa significa aderire a Dio al massimo grado se non adempiere, nel Mondo organizzato attorno al Cristo, la funzione precisa, umile od eminente, alla quale, per natura e per sovranatura, essa è destinata?

Nella Chiesa, vediamo diversi gruppi i cui membri si dedicano alla pratica perfetta di questa o di quella virtù particolare: misericordia, distacco, splendore dei riti, missione, contemplazione. Perché non vi potrebbero essere anche uomini votati al compito di dare, con la loro vita, l’esempio della santificazione generale dello sforzo umano? – uomini il cui ideale religioso abituale sarebbe quello di dare completa e cosciente esplicitazione alle possibilità od esigenze divine racchiuse in una qualsiasi occupazione terrestre? – in breve, uomini che, nei campi del pensiero, dell’arte, dell’industria, del commercio, della politica ecc…, si dedicassero a compiere, con lo spirito sublime richiesto, le opere fondamentali che costituiscono la stessa ossatura della società umana? Attorno a noi, i progressi ‘naturali’ di cui si alimenta la santità di ogni secolo nuovo, sono troppo spesso abbandonati ai figli della Terra, cioè agli agnostici o agli atei. Certo, senza pensarvi o senza volerlo, costoro collaborano al Regno di Dio e al compimento degli eletti: i loro sforzi, superando o correggendo intenzioni imperfette o cattive, sono recuperati da Colui «la cui Energia è in grado di sottomettersi tutto». Ma non si tratta, ovviamente, che d’una soluzione di ripiego, d’una fase provvisoria nell’organizzazione delle attività umane. Dalle mani che l’impastano sino a quelle che la consacrano, la grande Ostia universale dovrebbe essere preparata e maneggiata solo con adorazione.

Oh! venga il tempo in cui gli Uomini, diventati coscienti dello stretto legame che associa tutti i movimenti di questo Mondo nell’unica opera dell’Incarnazione, non potranno più dedicarsi ad alcun compito senza illuminarlo con la prospettiva precisa che il loro lavoro, per quanto elementare sia, è raccolto e utilizzato da un Centro divino dell’Universo! Allora, veramente, ben poco separerà la vita del chiostro da quella laicale. E solo allora l’azione dei figli del Cielo (assieme all’azione dei figli del Secolo) avrà raggiunto la pienezza desiderabile della sua umanità.

  1. b) L’umanizzazione dell’impegno cristiano

La grande obiezione del nostro tempo contro il Cristianesimo, la vera fonte delle diffidenze che rendono impermeabili all’influsso della Chiesa intere masse dell’Umanità, non sono precisamente delle difficoltà storiche o teologiche. È il sospetto che la nostra religione renda i suoi fedeli inumani. «Il Cristianesimo – pensano talvolta i migliori tra i Gentili – è cattivo o inferiore perché non conduce i propri adepti oltre l’Umanità ma fuori o a lato di essa. Li isola anziché immetterli nella massa. Li disinteressa anziché applicarli al compito comune. Dunque non li esalta: ma li indebolisce oppure li guasta. Del resto, non lo confessano forse essi stessi? Quando, per caso, un loro religioso, un loro sacerdote, si dedica a ricerche cosiddette profane, il più delle volte, prende ben cura di far presente che si adatta a queste occupazioni di second’ordine solo per conformarsi a una moda o ad un’illusione, tanto per dimostrare che i cristiani non sono i più stupidi tra gli uomini. In definitiva, quando un cattolico lavora con noi, abbiamo sempre l’impressione che lo faccia senza sincerità, per condiscendenza. Sembra interessarsi. Ma, in fondo, per via della sua religione, non crede allo sforzo umano. Il suo cuore non è più con noi. Il Cristianesimo genera disertori e traditori: ecco ciò che non possiamo perdonargli».

Questa obiezione, mortale se corrispondesse alla verità, l’abbiamo messa in bocca a un non credente. Ma non risuona forse, qua e là, nelle anime più fedeli? A quale cristiano, accorgendosi della sorta d’isolante o di ghiaccio che lo separava dai suoi compagni non credenti, non è forse accaduto di chiedersi con preoccupazione se non sbagliasse strada e se non avesse effettivamente perso il filo della grande corrente umana?

Ebbene, senza negare che (ben più con le parole che con gli atti) taluni cristiani si espongono al rimprovero d’essere, se non ‘nemici’, per lo meno ‘stanchi’ del genere umano, noi possiamo affermare, dopo ciò che abbiamo appena detto sul valore sovrannaturale dell’impegno terrestre, che l’atteggiamento di quelle persone è dovuto a un’incompleta comprensione, e non già ad una certa qual perfezione, della religione.

Noi disertori? Noi scettici circa il valore del Mondo tangibile? Noi disgustati del lavoro umano? Ah! quanto poco ci conoscete… Ci sospettate di non partecipare alle vostre ansie, alle vostre speranze, alle vostre esaltazioni nel penetrare i misteri e nel conquistare le energie terrestri. «Siffatte emozioni, dite voi, potrebbero essere condivise soltanto da coloro che lottano insieme per l’esistenza: ora, voialtri cristiani, vi professate già salvati». Come se, per noi, altrettanto e ben maggiormente che per voi, non fosse una questione di vita o di morte che la Terra abbia successo fin nelle sue potenzialità più naturali! Per voi (e davvero in questo caso non siete ancora abbastanza umani, non amate cioè sino al punto estremo della vostra umanità) si tratta solo del successo o dello scacco d’una realtà che, anche se concepita sotto l’aspetto di una qualche super-umanità, rimane vaga e precaria. Per noi, invece, in un senso vero, si tratta proprio del compimento del trionfo d’un Dio. C’è una cosa infinitamente deludente, ve lo concedo: è che, troppo poco coscienti delle responsabilità ‘divine’ della loro vita, tanti cristiani vivono come gli altri uomini, in uno sforzo dimezzato, senza conoscere il pungolo o l’ebbrezza del Regno di Dio da promuovere in tutti i campi dell’attività umana. Ma abbiate la cortesia di criticare qui solo la nostra debolezza. In nome della nostra Fede, abbiamo il diritto e il dovere d’appassionarci alle cose della Terra. Come voi, e persino meglio di voi (perché, di noi due, solo io posso prolungare sino all’infinito, conformemente alle esigenze del mio più intimo volere, le prospettive del mio impegno), voglio votarmi, corpo ed anima, al sacro dovere della Ricerca. Sondiamo tutte le barriere. Tentiamo tutte le strade. Scandagliamo tutti gli abissi. Nihil intentatum … Lo vuole Dio, che ha voluto averne bisogno. – Siete uomini? « Plus et ego ».

«Plus et ego». Non v’è dubbio. In questo tempo che vede il risveglio legittimo, in un’Umanità in procinto di diventare adulta, della coscienza della sua forza e delle sue possibilità, uno dei primi doveri apologetici del cristiano sta nell’indicare, con la logica delle sue prospettive religiose e ben di più con quella del suo agire, come il Dio incarnato non sia venuto per sminuire in noi né la magnifica responsabilità, né la splendida ambizione di farci noi stessi . Ancora una volta « non minuit, sed sacravit ». No, il Cristianesimo non è, come lo si rappresenta o talvolta lo si pratica, un sovraccarico di pratiche e obblighi che appesantiscono, aumentano l’onere già così gravoso o moltiplicano i vincoli, già così paralizzanti, della vita sociale. Esso è, in verità, un’anima potente, che conferisce significato, fascino e nuova scioltezza a quanto già facevamo. Ci orienta, certo, verso vette impreviste. Mala salita che a queste conduce, è tanto ben correlata a, quella che stavamo naturalmente già percorrendo che, nel cristiano, niente è più decisamente umano (è quello che dovremo ora esaminare) del suo stesso distacco.

  1. Il distacco mediante l’Azione

Quanto abbiamo testé esposto circa la divinizzazione intrinseca dello sforzo umano non pare discutibile tra i cristiani, poiché, per stabilirlo, ci siamo limitati ad assumere nel loro giusto rigore, e a confrontare tra loro, alcune verità teoretiche o pratiche riconosciute da tutti.

Tuttavia, certi lettori, senza trovare alcun difetto preciso al nostro ragionamento, si sentiranno forse vagamente disorientati o preoccupati di fronte a un ideale cristiano in cui è data tanta importanza alla cura dello sviluppo umano e alla ricerca di miglioramenti terrestri. Abbiano la cortesia di non dimenticare che abbiamo sinora percorso solo la metà della strada che conduce al Monte della Trasfigurazione. Sin qui, ci siamo occupati solo della parte attiva delle nostre esistenze. Tra breve, e cioè nel capitolo dedicato alle passività ed alle diminuzioni, si scopriranno con maggior ampiezza le braccia dominatrici della Croce. Osserviamo però che, nell’atteggiamento così ottimistico, così liberatorio di cui abbiamo or ora abbozzato i lineamenti, si nasconde ovunque una vera e profonda rinuncia. Colui che si dedica al compito umano, secondo la formula cristiana, sebbene possa esternamente apparire come immerso nelle cure della Terra, è, sin nell’intimo, un essere profondamente distaccato.

In sé, per intrinseca natura, il lavoro è un fattore molteplice di distacco per coloro che vi si dedicano senza ribellione, con fedeltà. In primo luogo, implica lo sforzo, la vittoria sull’inerzia. Per quanto interessante sia (quanto più spirituale è, potremmo dire), il lavoro è un parto doloroso. L’uomo sfugge alla terribile noia del dovere monotono e banale soltanto per fronteggiare le ansie e la tensione interna della ‘creazione’. Creare, o organizzare, energia materiale, verità o bellezza, rappresenta un intimo tormento, per cui chi vi si avventura è distolto dalla vita tranquilla e ripiegata su di sé, in cui sta proprio il vizio dell’egoismo e dell’attaccamento. Per essere un buon operaio della Terra, l’uomo, non solo deve abbandonare una prima volta la tranquillità ed il riposo, ma deve anche saper continuamente abbandonare le forme iniziali della sua industriosità, della sua arte, del suo pensiero, per conseguire risultati migliori. Fermarsi nel godimento, nel possesso, sarebbe una colpa contro l’azione.

Ancora e sempre, bisogna superare se stessi, lasciare dietro di sé ad ogni momento le più care idee appena abbozzate. – Ora, seguendo questa strada, non poi tanto diversa dalla via regale della Croce, come potrebbe sembrare a prima vista, il distacco non consiste semplicemente nella sostituzione continua di un oggetto con un altro oggetto dello stesso ordine, – come i chilometri succedono ai chilometri su una strada piana. In virtù di una meravigliosa potenza ascensionale inclusa nelle cose (l’analizzeremo più dettagliatamente quando parleremo della «potenza spirituale della Materia»), ogni realtà raggiunta e superata ci permette di scoprire e di perseguire un ideale di più elevata qualità spirituale. A chi dispiega adeguatamente la vela al soffio della Terra, si rivela una corrente che lo costringe ad inoltrarsi sempre più in alto mare. Più le aspirazioni e le azioni d’un uomo sono nobili, più questi diventa avido di fini grandi e sublimi da conseguire. Ben presto non gli bastano più la sola famiglia, la sola patria, il solo aspetto remunerativo della sua azione. Avrà bisogno di creare delle organizzazioni generali, di aprire vie nuove, di sostenere delle Cause, di scoprire delle Verità, di nutrire e di difendere degli Ideali. – Così, gradualmente, l’operaio della Terra cessa di appartenere a se stesso. A poco a poco, il grande soffio dell’Universo, insinuatosi in lui attraverso la fessura d’un agire umile ma fedele, lo ha dilatato, sollevato, trascinato.

Nel cristiano, purché sappia usare in modo conveniente le risorse della propria fede, tali effetti raggiungono il culmine e il coronamento. L’abbiamo visto: rispetto alla realtà, alla precisione, allo splendore del fine ultimo cui dobbiamo mirare anche con il più infimo nostro atto, noi, discepoli del Cristo, siamo i più fortunati tra gli Uomini. Il cristiano riconosce come sua la funzione di divinizzare il Mondo in Gesù Cristo. In lui dunque, il processo naturale, che spinge l’azione umana da un ideale all’altro, verso oggetti sempre più consistenti ed universali, raggiunge, grazie alla Rivelazione, il totale compimento. Di conseguenza, in lui il distacco mediante l’azione deve conseguire il massimo della sua efficacia. E ciò è perfettamente vero. Così come lo abbiamo concepito in queste pagine, il cristiano è ad un tempo l’uomo più dedito e distaccato che esiste. Convinto, più di un qualsiasi ‘mondano’, del valore e dell’interesse insondabili nascosti nel benché minimo successo terreno, è nel contempo persuaso, alla pari di un qualsiasi anacoreta, della fondamentale nullità di ogni risultato inteso semplicemente come vantaggio individuale (anche universale) all’infuori di Dio. Egli cerca Dio e solo Dio, attraverso la realtà delle creature. Per lui, l’interesse è veramente nelle cose, ma in assoluto subordine alla presenza di Dio in esse. Per lui, la luce celeste diventa tangibile e raggiungibile nel cristallo degli esseri; ma desidera solo la luce; e se la luce si spegne perché l’oggetto è spostato, superato, oppure se ne va, anche la sostanza più preziosa non diventa che cenere ai suoi occhi. Così, ‘sin nel proprio intimo e negli sviluppi più personali che si procura, non cerca se stesso ma il più Grande di sé, al quale sa di essere destinato. Davvero, al proprio sguardo, non conta più; non esiste più; si è dimenticato e perso nello stesso sforzo del perfezionamento. Non è più l’atomo che vive, è l’Universo che vive in lui.

Non solo ha incontrato Dio nell’intero campo delle proprie attività tangibili. Ma, in questa prima fase del suo sviluppo spirituale, l’Ambiente divino da lui scoperto assorbe le sue intime potenzialità nella stessa proporzione in cui queste conquistano più faticosamente la loro individualità[1].

———-

Il lavoro se non è collegato con la ricerca della Sapienza e della dimensione etica finisce per essere condanna, non senso, ingiustizia, stravolgimento del creato (cf Laudato si). Il senso ultimo della realtà e del destino umano non viene semplicemente dal lavoro, ma da Dio che dona un legame di venerazione amante per allontanare l’uomo dal male. Sapienza e venerazione non vengono dalla tecnologia

(Lettura: Libro di Giobbe, cap 28 (Traduzione di G. Borgonovo – Bibbia Mondadori, Vol III, pp 66-67).

L’uomo, nel creato, ha una capacità unica di trasformare la materia, di scoprire e di procurarsi i beni per la vita. Dio possiede la sapienza, e la dona all’uomo nel dialogo per orientarlo alla risposta etica.

GS Proemio. – La comunione: condivisione di ideali e di beni.

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.

La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.

Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.

L’intuizione del Concilio: Dio ha un progetto universale di fraternità nell’unica figliolanza. Le fonti bibliche del Concilio sono l’intera rivelazione: dalla dispersione di Babele imperialista alla chiamata di Abramo. Lungo tutto il pellegrinaggio Dio tesse la fraternità del popolo, che ha come missione vivere e irradiare la benedizione della fraternità universale, realizzata e resa operante in pienezza dal Messia Pasquale.

Nella Lettera a Ef 2,15 si legge: “per creare in se stesso, dei due (le frammentazioni umane) un solo uomo nuovo”. “Non più giudeo, greco, schiavo, libero, maschio o femmina, ma tutti siete uno in Cristo Gesù”, appartenenti a Cristo, discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa (Gal 3,28-29).

In Ef 2,1-22 Paolo, o la sua scuola, elaborano una pagina di grande valore profetico rileggendo la missione di Gesù. Cristo abbatte i muri costruiti dalla carne (2,14), per creare in se stesso, dalle ceneri delle divisioni, un solo uomo nuovo. Il movimento è dalle divisioni all’unità paragonata alla Nuova creazione (per creare in sé – Ef 2,15). Cristo ha lo stesso compito del Dio creatore, e porta a compimento la prima creazione facendola approdare alla pace di Dio (Shalom). Paolo sancisce una cristologia creatrice. Cristo riuscirà a trarre dalle forze negative delle acque primordiali una originale umanità, ancora sconosciuta per la storia umana, denominata “un solo uomo Nuovo”, vera immagine di Dio che finalmente gli assomiglia (Gen 1,26). Si noti la forza rappresentativa dell’intuizione paolina sulla creazione nuova di umanità e del suo habitat (cf GS n 39. L’uomo nuovo nella comunione sono i “cittadini del cielo”, opera del Vangelo finalmente assimilato e realizzato (Fil 1,27; 3,20).

Cittadini del vangelo per diventare cittadini del cielo sono concetti dinamici di cammino – pellegrinaggio di Koinonia, per tessere la fraternità sognata da Dio. Si veda anche 1Cor 1,9: “Dio è fedele e vi ha chiamati alla koinonia col Figlio suo Gesù Signore nostro; e in 1Cor 10,16: “Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi rompiamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo?

“Mangiare e bere sono contenuti densi di vita e stabiliscono una relazione vitale. Paolo parla del cibo pasquale del pellegrinaggio. Si tratta di affermazioni irriducibili, il cui significato interpella il credente. Dio ci dona un legame eterno di relazione, lungo il pellegrinaggio, per vivere relazioni nuove orizzontali. La comunità cristiana pone alla base l’educazione alla koinonia espressa e ricevuta nella celebrazione eucaristica e nel prolungamento della Liturgia delle Ore.

Non cediamo al ritualismo cerimoniale. Questa centralità non è un fatto a cui abituarci. Cosa fare, dice B. Calati, perché queste azioni comunitarie importanti (Eucarestia, Liturgia delle Ore), siano presenti nella ferialità del nostro cammino di fede e trasformino la vita in offerta reale? La preghiera, la liturgia inverano la storia della salvezza, la producono e la rendono irradiante.

Regola di S. Benedetto, cap 72

Lo zelo buono che i monaci devono coltivare

1Come vi è uno zelo amaro e cattivo che allontana da Dio e conduce all’inferno, 2così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore. 4Essi dunque «gareggino reciprocamente nel rendersi onore» (Rm 12,10); 5sopportino con la più grande pazienza le infermità fisiche e morali dei fratelli; 6facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; 7non cerchino il proprio vantaggio, ma quello altrui; 8manifestino con cuore puro carità fraterna; 9temano Dio con amore; 10amino l’abate con affetto umile e sincero; 11non antepongano assolutamente nulla a Cristo, 12 il quale ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Nel percorso della Regola, il n 72 fa emergere i frutti della “scuola del servizio del Signore” (cf Prologo v 45), verso cui ogni monaco – discepolo di Gesù – deve tendere (cf n 43), nutrendosi nella Liturgia (n 43,3) e raggiungere la Sapienza donataci nelle Scritture Sante (cf n 73).

 

Si veda anche scheda su: Il lavoro: condanna o benedizione?

Il senso ultimo del lavoro

 

[1] Pierre Teilhard de Chardin, L’Ambiente Divino , tr. it a cura di Annetta Dozon Daverio e Fabio Mantovani, Queriniana, Brescia 2003, pp. 28-46.